Oggi è stata la giornata della memoria.
La mia giornata della memoria è legata a un viaggio.
Era l’estate del 1981 e i miei decisero di partecipare a un viaggio organizzato dal frate che li aveva sposati. Il frate, padre Francesco Ruffato, era uno studioso della vita di Padre Massimiliano Kolbe e il viaggio aveva come destinazione il luogo dove la vita di Padre Kolbe finì: Auschwitz.
Era l’estate del 1981, io avevo 11 anni e mio fratello 12, l’età che adesso hanno i miei figli più grandi.
Alla partenza su 50 posti del pullman, ci ritrovammo in 20: noi quattro e una cozzaglia di varia umanità che ci fece apparire da subito come un’armata Brancaleone alla conquista di Gerusalemme. Il motivo era molto semplice: la Polonia, ma in realtà tutto l’est Europa e quindi tutti gli stati che ci stavamo accingendo ad attraversare con il nostro bel pullman, versava in una profonda crisi economica e politica e l’eventualità di un’invasione Russa era più che un’ipotesi astratta.
Erano gli anni della guerra fredda, la Perestroika era ancora da venire e il generale Jaruzelski stava già prendendo potere, cosa che poi avvenne in ottobre con conseguente introduzione delle leggi marziali in dicembre e gli scontri con il sindacato Solidarnosc.
Ma noi partimmo: ritrovo a Padova, presso la basilica di sant’Antonio, viaggio organizzato dalla OPA, Opera Pellegrinaggi Antoniani.
Se ci penso adesso, con il senno di poi, penso che i mei dovevano aver assunto qualche sostanza stupefancente quando decisero di partire. Tanto per intenderci, quello è stato l’unico viaggio che ho fatto all’estero con i miei genitori. Le mie vacanze da bambina si sono sempre svolte tra Pinarella di Cervia e i monti del trentino, con solo un’estate a 6 anni in giro per l’Umbria. Insomma, non ho avuto certo estati da brivido e i miei non erano certo degli hippy alla ricerca di emozioni forti. Ma non erano nemmeno dei bigotti dalla fede cieca nella provvidenza e nel potere salvifico dello Spirto Santo. Erano semplicemente amici di padre Francesco…
Comunuque, siamo partiti. Gran parte del viaggio si svolse su quel pullman. Sì perché la Polonia è lontana da Milano, molto lontana.
Ebbi l’occasione di vedere Budapest e Praga quando non erano mete turistiche.
Quando tornai a Praga anni dopo rimasi sconvolta nel vedere il Ponte Carlo pieno di gente da non poter passare: la prima volta che lo vidi c’era solo la nostra piccola combriccola scalcagnata e qualche altro piccolo gruppo di turisti sprovveduti come noi.
Ad ogni frontiera che attraversavamo avevamo sempre una guida che ci aspettava, perché senza guida non si poteva entrare. Era poi la stessa che cambiava i soldi in nero, che ci indicava dove comprare le collane di ambra e come nasconderle nelle valigie per passare i controlli, che infatti avvenivano regolarmente, di quelli “apri la valigia e tira fuori tutto”. Il passaggio di dogana era sempre da brivido: militari che salivano a controllare i documenti e noi in silenzio religioso.
Mia mamma, previdente, aveva preparato una borsa con generi alimentari di vario tipo che venne da subito chiamata la “borsa della sopravivenza”. Capii il senso di quella borsa non appena varcammo il confine Polacco. Visitammo Varsavia e Cracovia: credo di aver visitato musei e basiliche, ma nella mia memoria ci sono le code infinite della gente davanti a negozi di alimentari vuoti. Noi eravamo alloggiati in alberghi bellissimi, eppure quello che veniva servito a pranzo e cena non rispecchiavano assolutamente il lusso delle stanze.
E poi finalmente arrivammo. Auschwitz, proprio lì.
Sarà stata la giornata di sole, sarà stato che non so perché mi aspettavo baracche di legno fatiscenti, Auschwitz mi sembrò un bel posto. Tutte quelle casette in muratura, ordinate, ben tenute… Insomma, non dava l’idea del posto terribile che mi avevano raccontato.
Poi però arrivò la guida, il filmato, il museo, la visita… Il museo di Auschwitz rimane uno dei posti più strazianti che io abbia mai visto: vetrine pieni di oggetti personali ammucchiati per genere. Occhiali, scarpe…da adulto e da bambino… rotoli di tessuto fatto con i capelli… Tutto era organizzato, tutto era catalogato.
E poi ci furono quei gradini, i gradini delle casette. Erano in pietra eppure erano consumati al punto che al centro di ogni gradino c’era una conca. Ecco quello che ricordo io sono i gradini, quella conca. Sarà stato il racconto della guida o la mia fantasia di bambina, ma cominciai a vedere intorno a me tutte le persone che avevano calcato quei gradini e provai a immaginare che cosa potevano aver pensato guardando a testa china quei gradini.
Dopo Auschwitz andammo a Birkenau, poco distante. Lì c’erano le baracche in legno dei documentari, lì ho visto quello che rimaneva di un’assurdità.
Durante un viaggio del 1981 ho capito quanto può essere facile arrivare a fare una cosa così atroce: basta cominciare a classificare le persone per genere, nazionalità, religione, inclinazione sessuale e decidere chi va bene e chi no, basta eseguire ordini senza capirne il senso, è sufficiente fare quello che si è sempre fatto senza chiedersi il perché lo si sta facendo, se è giusto o no.
Non ci vuole molto…
A capo di ogni casetta, di ogni baracca c’era sempre un prigioniero, ma che proprio per il suo ruolo di “capo” godeva di privilegi e spesso aveva il potere di vita e di morte su gli altri prigionieri. Ma era prigioniero anche lui…
Quest’estate prenderemo il camper, forse andremo il Germania, e forse ancora più su, chissà.