La mediocrità

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Negli anni Settanta andava molto di moda la libertà e la fantasia. Sono stata fortunata a essere bambina in quegli anni: si era appena usciti dal ’68, gli anni del 6 politico, del siamo tutti uguali, anni in cui “agonismo” era una parolaccia, i bambini dovevano essere lasciati liberi di divertirsi, di fare e di sperimentare. Poi sono arrivati gli anni ottanta, quelli del mito dei soldi facili, dell’azzardo e dei paninari e ci si è resi conto che quella che stava crescendo era una generazione di cazzoni. Pian piano si è riscoperto il valore dell’impegno, della meritocrazia, ma siamo in Italia e presto il merito è diventato solo quello di essere nati nella famiglia giusta, con i giusti contatti e le giuste opportunità. Allora si è cominciato a pensare che è giusto insegnare ai bambini fin da subito che se vogliono qualcosa dalla vita se la devono conquistare con le unghie e con i denti. Che l’importante è “eccellere”, non importa in cosa, l’importante è riuscire a emergere dalla massa. E via quindi con i corsi a tre anni di inglese, inizio sport a 4 anni, a 5 lo strumento musicale. A 6 anni sei già segnato, perché ormai hai fatto le tue scelte e non ti resta che applicarti per eccellere. Bisogna andare alle mostre interattive di arte contemporanea, bisogna guardare i cartoni in inglese, bisogna fare una vacanzina all’estero almeno una volta l’anno, bisogna arrampicare, sciare, andare in barca a vela, nuotare come un delfino e tuffarsi dagli scogli alti 5 metri… Ci sono corsi anche per essere creativi, scuole private e costose che promettono di tirare fuori il meglio dai bambini, tutto perché un domani possano eccellere, possano differenziarsi, emergere.

E se tuo figlio proprio non ne ha voglia? E se tu non ne hai voglia? Uuuhhh… è lì, pronta come uno spettro dietro la porta… la mediocrità…

I bambini ascoltano i discorsi dei grandi e capiscono che se vorranno un lavoro dovranno inventarselo, oppure essere così bravi in qualcosa da trovare qualcuno all’estero disposto a pagarli per farlo. Noi genitori ne siamo ben consapevoli e così avanti, un corso dopo l’altro, con l’ansia di perdere qualche treno che poi non passa più… E se il treno che non passa più è la voglia di divertirsi? Noi grandi sappiamo bene che sono pochi quelli che diventano delle eccellenze, e sappiamo bene che oltre al talento, all’impegno e alla costanza è necessaria una congiuntura astrale che nemmeno Rob di Internazionale riesce a spiegare nei suoi oroscopi.

Io conosco la frustrazione di non eccellere, dell’arrivare a tanto così dall’emergere ma rimanere sempre nella massa. Brava a scuola, ma mai la più brava; a vent’anni carina, alta e magra ma con un’acne che ha segnato tutta la mia giovinezza; negata per lo sport; brava nel lavoro, ma non così brava da fare il grande salto di qualità. Insomma, una delle tante…

Non parlo bene inglese, suono male la chitarra, non so sciare, non so nuotare, non so arrampicare, non ho avuto esperienze lavorative all’estero.

Eppure… rullo di tamburi… io sto bene, ho la vita che volevo, sono amata e amo moltissimo e a ben vedere non mi manca nulla. Nella massa c’è un sacco di gente simpatica, che si affanna, si arrabatta ma è capace anche di ridere ed è estremamente generosa.

Continuerò a chiedere il massimo dai miei figli e cercherò di non far mancare loro nessuna occasione, ma vorrei che diventassero consapevoli che sono speciali perché sono loro e che se si fanno le cose con passione i risultati poi vengono da sé.

O almeno lo spero…

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Tre giorni

Tre giorni tutti insieme, in un piccolo appartamento in montagna, mi hanno fatto riflettere su che cosa significa essere madre di due esseri che stanno uscendo dall’infanzia e stanno entrando nell’età adulta, al principio di quell’età che chiamano adolescenza.

Significa conoscere nuove canzoni che non si sa bene come vengano diffuse visto che alla radio, alla tv, nelle filodiffusioni dei supermercati non vengono mai trasmesse.
Significa scoprire giochi nuovi con il cellulare che non devono essere per forza delle app: ad esempio, mai provato a scrivere un messaggio in WhatsApp lasciando che il correttore automatico decida quale parola sia meglio scrivere?
Significa ricevere un messaggio con scritto “mio fratello mi dà fastidio” sebbene siate tutti nella stessa casa.
Significa sentirsi rispondere sempre “quasi” alla domanda “hai finito i compiti?”.
Significa ringraziare il cielo per l’invenzione del cellulare e bestemmiare contro chi l’ha inventato.
Significa vedere ogni mattina la vita che fiorisce ma non è quella che vedi nello specchio.
Significa ridere per delle scemenze e perdere le staffe per delle cretinate.
Significa tollerare 4 “tipo” in una frase di 10 parole solo perché ai tuoi tempi facevi lo stesso con “cioè”.
Significa trovarsi nel cestino dei panni da lavare vestiti con ancora il profumo del ferro da stiro e litigare ore per una doccia.
Significa contare fino a 10 prima di avere una crisi di nervi all’ennesima risposta “un attimo” o “adesso”.
Significa non sapere mai quanto è giusto pretendere, quanto incoraggiare e quanto incazzarsi.
Significa rimanere stupefatti per quello che sono capaci di fare e attoniti per quello che non fanno.
Significa parlare di politica, legalità, giustizia e di come è difficile fare la bolla di saliva perfetta.
Significa sapere che ogni tanto ti odiano e rimanerci male anche se sai bene, perché l‘hai studiato, che è un passaggio imprescindibile per diventare adulti.
Significa desiderare che ce la mettano sempre tutta per fare del loro meglio perché sai bene che solo così potranno essere felici.
Significa imparare a dare fiducia perché loro poi possano meritarsela.
Significa imparare a rimanere un po’ in disparte e lasciare che facciano i loro errori, che trovino la loro strada, che affrontino le loro sconfitte e i loro periodi no. Anche se pagheresti oro perché tutto questo potesse essere loro risparmiato. Ma visto che non si può, significa essere sempre qui per loro dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta ma giusto il tempo per curare le ferite e aggiustare le ali quel tanto che basta perché poi possano riprendere il volo. Le vittorie ci basterà vederle anche da lontano.

Apologia di una risata

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C’è una scena di un film, “Fiori d’acciaio”, che mi è sempre rimasta nel cuore.

Inizia come una scena drammaticissima dove ho versato tutte le mie lacrime ma che si chiude con una risata liberatoria. Il tutto in circa due minuti di film (si può trovare su youtube http://www.youtube.com/watch?v=iZx1W6cHw-g&list=RDlGZu8gwfpQc&index=9).

Ridere credo sia lo strumento di cui è dotato l’uomo per affrontare la vita: quando si smette di ridere si smette di vivere. Ridere può essere un atto di ribellione, un atto di amore, un atto di sfida, un segno di amicizia, ma è sempre un atto di libertà. In fondo lo abbiamo imparato anche con “Il nome della rosa”: la risata è temutissima dai regimi totalitari, da chi vuole avere il controllo, da chi vuole dominare. Quando qualcuno minaccia qualcun altro, una delle espressioni è “ti faccio passare la voglia di ridere”. E non per niente nelle epoche passate era ritenuto sconveniente per le donne ridere in pubblico, e credo sia loro tutt’ora vietato in alcuni Paesi del mondo.

Per quel che mi riguarda a me ridere piace un sacco. Rido spesso anche di nervosismo, quando c’è tensione, mi viene da ridere quando assisto a scenate sproporzionate alla reale situazione o ancora quando mi viene chiesto qualcosa di impossibile.

Ricordo la ridarola che mi prese durante il funerale di mio padre quando il prete durante l’omelia si ostinava a chiamarmi Sonia, oppure quando accompagnammo al cimitero del suo paese natale la salma di mio nonno e trovammo il cimitero chiuso perché il becchino se ne era dimenticato e dovemmo recuperarlo all’osteria del paese.

I ricordi più cari che ho delle persone a cui ho voluto bene sono legati a delle sane risate. Di notte in una tenda o in una macchina, in classe a scuola, su treni in giro per l’Europa, davanti al mare o in cima a una montagna. Ma anche in una birreria con altre reduci da casa-figli-lavoro, in mensa davanti a vassoi con pranzi discutibili, in una redazione davanti a delle bozze con dei refusi così macroscopici ma perfettamente mimetizzati che sembravano lì apposta per farti uno scherzetto.

Secondo me ridere fa bruciare anche i grassi: se ridi tanto alla fine ti fanno male i muscoli della pancia. Chissà quanto vale una risata: 5 addominali? 10?

Ho visto gente ridere delle proprie disgrazie con quel sano cinismo che rende le persone indistruttibili e ho cercato di farlo anch’io quando l’angoscia mi toglieva il respiro.

Vorrei ridere più spesso, di quelle risate da non riuscire a smettere, di quelle che ti scendono le lacrime e ti viene ancora da ridere appena il pensiero ritorna sul motivo della risata.

Lo so, purtroppo nella vita ci sono cose su cui ridere è impossibile, ma se solo riesci a sorriderne significa che non hanno vinto loro, hai vinto tu.

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…

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Tanti anni fa, nel 1990, feci un campo con gli scout presso una casa famiglia che ospitava ragazzi disabili ed emarginati in genere. Era gestita da una coppia, marito e moglie, che avevano fatto propri gli insegnamenti di don Milani e proponevano per i loro bambini i principi della scuola popolare.

Non ricordo come arrivammo lì, non ricordo dove fosse, non ricordo i nomi dei padroni di casa ma ho il ricordo vivido della confusione mentale con cui tornai alla mia vita dopo quell’esperienza. I miei ricordi sono così confusi che non riesco ancora oggi, nonostante il senno del poi, a valutare se fu un’esperienza positiva o negativa.

In quella casa dalle porte sempre aperte, dove tutti erano i benvenuti purché fossero disposti a dare una mano e a mettersi in discussione, era presente il Vangelo e si leggeva il Manifesto. La padrona di casa aveva vissuto in Salvador e aveva vissuto sulla sua pelle la guerra civile. Nei giorni in cui noi eravamo ospiti c’era fermento in casa, perché alcuni loro amici italiani che si trovavano in Salvador per portare aiuti e sostegno, erano stati fermati dalla polizia salvadoregna e si trovavano in questura.

Una sera ci fu proposto la visione di un film: “La notte delle matite spezzate”.

Il film raccontava di un gruppo di diciassettenni argentini arrestati e fatti sparire per aver manifestato contro l’abolizione di una tessera che permetteva sconti sui libri e sui trasporti. Il film, basato sul racconto di un sopravvissuto, narrava tutte le atrocità subite dai desaparecidos argentini.

Finito il film, ci fu un acceso dibattito. I padroni di casa raccontarono la situazione del Salvador, allora in piena guerra civile, martoriato da violenze e uccisioni. A un certo punto si intuì che gli aiuti che venivano mandati in Salvador erano destinati all’opposizione e che non ci si chiedeva se i soldi inviati fossero destinati all’acquisto di libri per i bambini o per l’acquisto di armi.

Ricordo a quel punto lo sbottare scandalizzato di un prete che accompagnava un altro gruppo scout in quei giorni ospite con noi della casa, non appena si rese conto che in fondo anche con il suo lavoro e con la sua sola presenza lì, stava sostenendo una causa in un modo che non condivideva.

Ne nacque un acceso dibattito sulla scelta cristiana del perdono, dell’amore e del pacifismo contrapposto al dovere di difendere la propria libertà e di combattere assassini sadici e spietati.

La discussione fu ampia e appassionante ma con il passare degli anni non ricordo più cosa fu veramente detto e cosa invece avveniva nella mia testa perché ovviamente non partecipai attivamente: troppo ignorante, troppo giovane nonostante i miei vent’anni, troppo timida per avventurarmi in discussioni che si avvicinavano molto a concetti a me perlopiù sconosciuti come poteva essere la teologia della liberazione.

Ricordo però che mi tornò in mente l’incipit di “Se questo è un uomo” ( Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…) quando la padrona di casa disse candidamente che è facile essere pacifisti quando non si è minacciati, quando non si vedono i propri figli sparire, quando non si vedono uomini e donne umiliati, torturati, uccisi per una frase o un’idea.

In questi giorni tremendi, dove a una manciata di chilometri da qui la gente muore sia se rimane dove è sia se prova a scappare perché lasciata morire in mare, noi continuiamo a vivere nelle nostre tiepide case, infastiditi dalla loro presenza. Noi non vogliamo che sia un nostro problema.

L’estate scorsa siamo stati in Normandia e abbiamo visitato il cimitero americano dei caduti in seguito allo sbarco che fu l’inizio della fine della seconda Guerra mondiale. Americano… Gli stessi americani che trent’anni dopo non si fecero scrupolo a sostenere le dittature sudamericane, nonostante i massacri, le violenze, i soprusi, i morti.

Bene e male, follia e ragione, amore e difesa, vita e morte, politica, religione, interessi economici…

La mezza età non mi ha portato saggezza e ringrazio il cielo per non dover essere io a decidere il da farsi. E rimango così nella mia tiepida casa, ma non sono sicura di stare bene…

Io, Tenco, mio padre e Morandi

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Ogni anno che c’è San Remo si riparla di Tenco. In realtà se ne parla anche quando c’è il Premio Tenco, ma di solito in quell’occasione i discorsi sono per pochi intenditori dei quali io non faccio sicuramente parte.

Non sono un’intenditrice di musica, appartengo alla massa “nazional popolare”. Non ho gusti raffinati, non ho artisti preferiti.
Comunque, ogni volta che si parla di Tenco mi sento inquieta. Sono convinta che citare Tenco sia molto spesso un tentativo malriuscito di sembrare intenditori colti di musica. Un voler apparire intelletual-snob, con il rischio spesso di non essere credibili. Soprattutto se di anni se ne hanno meno di 60.
Le canzoni di Tenco le conosco perché piacevano a mio padre: devo dire che in realtà conosco tutta la discografia degli anni sessanta perché mio padre lì si era fermato. I cantautori per lui erano Paoli, Tenco, Gaber e Jannacci e non quelli degli anni settanta che penso lui trovasse deprimenti. Figuriamoci la musica anni ottanta, che per lui, e devo dire non sempre a torto, era solo una cozzaglia di suoni… Qualche volta trovava anche qualche canzone contemporanea di suo gradimento, ma per vederlo felice il sottofondo doveva essere rigorosamente ’60s. E capivi che era felice perché anticipava le parole delle canzoni dando prova di conoscerle a memoria e facendo saltare letteralmente i nervi a me adolescente che già trovavo insopportabili quelle canzoni, figuriamoci con uno che anticipava versi e motivetti…

Ma sto divagando… Conosco la storia di Tenco ma non l’ho vissuta e non l’ho sicuramente capita. Le sue canzoni fanno parte del repertorio di mio padre e come tali non sono mai state mie. Come le canzoni di Paoli, Gaber e Jannacci: sono di mio padre, sono della sua generazione, e per quanto ne apprezzi molte, non fanno parte della mia storia. Le ascolto con lo stesso affetto con cui si guardano le foto dei propri genitori da giovani: qualcosa che appartiene a qualcuno legato visceralmente a te ma che però non appartiene a te.

Arriviamo al punto: a me Tenco non piace, non mi piace il personaggio e non mi piace la sua storia dannata. Aveva un talento pazzesco, una sensibilità fuori dal comune, e ha buttato via tutto. Qualunque sia stata la ragione del suo gesto, qualunque fossero i suoi demoni, mi dà fastidio il fatto che venga citato come modello. Eppure in “Preghiera in gennaio” dedicata a Tenco, De Andrè lo racconta così bene, immagine struggente, infelice e fragile come sono spesso i protagonisti delle canzoni di De Andrè. Chissà come è andata veramente, ma se mi devo basare sulla versione ufficiale allora la sua storia non mi piace. Non so se ho voglia di raccontarla ai miei figli…

Non mi piace la storia di Tenco perché totalmente priva di senso dell’umorismo, di leggerezza e speranza.

Okkei, vado con l’eresia: se devo scegliere, io preferisco la storia di Gianni Morandi. Lui che canta “Andavo a cento all’ora” e “Fatti mandare dalla mamma”. Lui che da simbolo della musica italiana si è ritrovato in una manciata di anni ad essere sinonimo di “vecchio”, ridicolo e superato, nonostante un tentativo di stare al passo con i tempi con “C’era un ragazzo”. Lui che si ritira dalle scene, studia musica e dopo una decina d’anni ci rimette la faccia e riconquista dignità e pubblico con “Uno su mille” e “Canzoni stonate”. Lui che è stato escluso per le stesse logiche di mercato che lo avevano portato all’apice del successo. Forse non aveva la sensibilità e l’intelligenza di Tenco, forse il non essere autore delle proprie canzoni lo ha salvato perché se canti te stesso, se la tua musica non è capita, sei tu a non essere capito. Ma credo che ad averlo salvato sia stata la capacità di non prendersi troppo sul serio e trovare il lato comico anche quando non si vede. Ecco, la sua storia ai miei figli potrei aver voglia di raccontarla, quando le cose si fanno difficili, quando una sconfitta brucia, quando hanno la sensazione di non farcela, quando pensano di non essere capiti. Perché essere sensibili è una buona cosa ma se serve per capire gli altri, per farsi carico delle sofferenze altrui. Ma per quel che riguarda se stessi meglio non prendersi troppo sul serio, mettercela sempre tutta per fare del proprio meglio, poi come la va, la va…

Me lo devo ricordare la prossima volta che ascolteranno “Fossi figo” dove il buon Gianni canta con Elio…

Oddio, San Valentino!

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Sta arrivando, inesorabile, come tutti gli anni… 14 febbraio… San Valentino.

Chissà perché mi irrita così tanto… Io che amo le vetrine di Natale, le uova di Pasqua, pulcini e coniglietti… Sì, è vero, non mi piacciono particolarmente Halloween e Carnevale, ma non mi irritano: se vedo in giro gente addobbata come il fondo di una tomba, o se mi lanciano i coriandoli, io lo trovo divertente. San Valentino invece ha il potere di infastidirmi. Tutti quei cuori nelle vetrine, tutto questo amore caramelloso… Boh…
Per me è inspiegabile. Forse solo un buon psicoterapeuta che fosse in grado di rileggere la mia adolescenza potrebbe darmi qualche spiegazione.

Io, che per azzittire anche l’ultimo neurone nei periodi bui riesco a sciropparmi “Uomini e donne” della DeFilippi, io, che nei tempi che furono ho visto con piacere, ebbene sì con piacere, “Carramba che sorpresa” della Carrà e “Stranamore” di Alberto Castagna, io, che trovo affascinante il trash, che non mi scandalizzo per dichiarazioni d’amore inverosimili in tv, sì, proprio io, darei fuoco alle vetrine dei fioristi, delle pasticcerie e delle cartolerie non appena il rosso e i cuori prendono i sopravvento.

Razionalmente penso che potrebbe essere bello per una sera vestirsi eleganti, magari truccarsi, uscire a cena, ricevere rose rosse, regalare biglietti con scritto quello che non si dice mai abbastanza alla persona amata…
Ma sono sicura che se mi dovesse capitare di ricevere una pizza a forma di cuore come ci successe anni fa quando uscimmo a cena senza minimamente pensare che giorno fosse, bè… potrei avere una crisi isterica.

Forse è la forma del cuore che mi infastidisce? Il rosso? Forse associo il cuore con la freccia ad atti vandalici sulle panchine dei parchi?

O sono i cuscini, i pupazzetti, le frasi sdolcinate dei biglietti? Forse è perché non ne ho mai ricevuto uno quando avevo l’età giusta per riceverlo senza imbarazzo? Forse è un rigurgito di “vorrei ma non posso”?

E poi perché mi da così fastidio che mi dia fastidio? È perché trovo snob snobbare san Valentino e io non voglio sembrare snob?

Ho cercato anche notizie su internet su chi fosse San Valentino nel tentativo di esorcizzare il mio fastidio nei suoi confronti. Ho scoperto così che fu martire, decapitato quando ormai aveva più di novant’anni. Considerato che l’aspettativa di vita alla fine del 200 dopo Cristo non doveva essere molto alta e che quindi la probabilità di morire sereno nel proprio letto erano tutte dalla sua parte, direi che fu un po’ sfigato e fortunato allo stesso tempo.

Riguardo alla sua vita ho trovato solo leggende. Ho scoperto che regalava fiori ai ragazzi e alle ragazze che frequentavano il suo giardino e che il suo ultimo pensiero fu per la figlia cieca di un suo carceriere alla quale fece il miracolo di ridare la vista. A lei le sue ultime parole: “dal tuo Valentino”… A più di novant’anni… per quella che si lascia intendere fosse una ragazzina… Mah… sarà il ritratto un po’ grossolano che ne fa wikipedia e gli altri siti consigliati da Google, ma ‘sto San Valentino non me la racconta giusta…

Mi sa che mi terrò la mia avversione per il buon San Valentino e per la giornata a lui dedicata.

Magari se mi dedico un po’ all’agiografia trovo un santo, o ancora meglio una santa più simpatica che potrei proporre come nuova protettrice degli innamorati. Magari una super sfigata che è riuscita a conquistare l’amore di qualche uomo bellissimo solo con la sua personalità…

Ah no, dimenticavo, questo è successo solo a “quella granculo di Cenerentola”….

Un funerale

Un funerale. Una chiesa in periferia in cui non entravi da tantissimo tempo.

Arrivi in ritardo perché non trovi parcheggio, ma anche perché non sai bene come e dove cercarlo perché quando frequentavi queste vie la patente non ce l’avevi ancora.

Varchi la soglia, o meglio ci provi, perché la gente è così tanta che per entrare devi chiedere permesso.

Ti guardi intorno e riconosci un paio di visi.

E poi cominciano i ricordi. Ti rivedi bimba, vestita di blu con un fazzoletto al collo, in questa chiesa di periferia. Il prete racconta la signora che in questo momento tutta questa gente sta salutando e rivedi la sua casa che hai frequentato tante volte da ragazzina perché eri amica dei suoi figli.

Sono passati trent’anni.
Non che non ci si sia più rivisti in tutti questi anni, sono state tante le occasioni: matrimoni, battesimi, funerali, ma anche supermercati, feste o semplici incontri casuali. Ma non c’è come i funerali per ripensare a quello che è stato.

Sei lì che viaggi nei ricordi e ti rendi conto che sono più di due i visi che riconosci in questa chiesa affollata. Ce ne sono molti altri che ti sono familiari, sono solo un po’ nascosti sotto una chioma brizzolata, qualche chilo di troppo, un buon trucco, qualche ruga in più. Ma sono sempre loro, i volti della tua infanzia.

Finita la cerimonia, i saluti e i baci di rito.
Li guardo e rivedo i bambini che giocavano con me. Con loro ho imparato il significato di amicizia, con loro ho condiviso i primi amori, le prime delusioni, le prime litigate. La vita ci ha portati su strade diverse, in luoghi diversi, probabilmente adesso la pensiamo in maniera differente su molte cose, ma c’è sempre un filo rosso che ci unisce: l’esserci conosciuti all’inizio di tutto.
Dopo tre minuti che ci si parla, li guardi in faccia e non vedi più gli anni passati. Riconosci i bambini che siamo stati ma anche le persone adulte che siamo diventate.

E non è una brutta sensazione, anzi.

Chissenefrega

Il libro “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino inizia con un elenco di “non sopporto”.

Più invecchio e più il mio elenco dei non sopporto si allunga.

Il brutto della mezza età, la cosa che più mi infastidisce, è guardare le persone anziane non più come “altro” da me, ma osservarle con la consapevolezza che anche io, tra poco più di un battito di ciglia, sarò così, e la cosa peggiore è che sarò così se sarò fortunata.

L’unica cosa che rimpiango dei vent’anni è la sensazione di immortalità, l’idea che la vecchiaia e il decadimento siano qualcosa di altro, un problema che non ti riguarda. Rimpiango quel senso di leggerezza, il non prendersela.

Le persone anziane spesso dicono tutto quello che pensano, si arrabbiano per niente, sono impazienti.

Sono tante le cose che non sopporto… Le svolte a sinistra, svuotare la lavastoviglie, il non essere creduta o ascoltata o capita o considerata, cercare parcheggio, fare benzina ai distributori automatici, avere qualcuno che decide per me, pulire il pesce, aspettare, avere torto, la neve a Milano, sentirmi in colpa, le briciole dei biscotti nel the, mettere a posto la biancheria stirata, avere freddo, avere paura.

Quando avevo quattordici anni, non so perché, ero arrabbiata con il mondo, erano tantissime le cose che non sopportavo, prima fra tutte me stessa. Poi, un giorno, verso i diciassette anni mi sono svegliata una mattina e mi sono detta “ma chi se ne frega”. Ero stanca di essere triste e arrabbiata e ho cominciato a vivere.

Forse la nostra vita è un continuo susseguirsi si adolescenze, ogni tanto bisogna mandare tutti a quel paese e ricominciare a vivere. Nonostante non sia tutto come vorremmo, nonostante tutti i “non sopporto”. Nonostante tutto.

E scopro così che esistono persone anziane che se la ridono, e ridono parecchio. Non capita spesso di vederle, ma succede. Ogni tanto capita di vederne qualcuna che ti fissa con quegli occhietti divertiti, che guarda il tuo affannarti e se la ride.

Ecco, io vorrei invecchiare così.

Ho chiuso i libri

Ho chiuso i libri.

Questo significa che sono libera. È come dopo la maturità: fino a un’ora prima ansia e lavoro frenetico, poi con l’ultimo “visto si stampi” dell’ultimo volume… fine.
E quel che sarà sarà.

Erano però alcuni anni che non mi ritrovavo così, senza avere niente da fare. E ho fatto quello che bramavo da mesi: ho dormito.

È sempre così: quando finisco qualcosa, quando raggiungo un obiettivo, quando non ho niente da fare, io mi fermo e dormo. Mi diventa faticoso fare anche le cose più banali: preparare la cena, rifare i letti, la strada verso la scuola per andare a prendere il terzogenito mi sembra lunghissima, anche chiacchierare o telefonare a qualcuno che non sento da un po’ diventa un’impresa.

Dovrei essere felice, vitale come il primo giorno di vacanza, e invece mi sento uno straccio. Un po’ mi mancano le persone con cui condividere il caffè la mattina, le chiacchiere alla stampante… Sono passata da 40 mail al giorno a 2.

Poi ci si mette anche la neve e il freddo…

Credo che se non avessi una famiglia, me ne starei sotto il piumone digiunando per giorni. Con buona pace di tutti i progetti fatti per “quando chiuderò i libri”…

E come se dovessi rielaborare un evento, mi verrebbe da dire un lutto, ma in realtà in ambito editoriale la messa in stampa viene spesso paragonata a un parto: soffri, sudi, ti arrabbi, lavori di notte, il sabato, la domenica, abbandoni i panni da stirare al loro destino, i bambini si vestono ormai scegliendo direttamente dallo stendino perennemente presente in soggiorno, ti dimentichi appuntamenti, rimandi le visite di controllo, figuriamoci parrucchiere ed estetista… A ogni ostacolo, a ogni imprevisto, a ogni arrabbiatura ti ripeti che è l’ultima volta…

Poi metti quella benedetta sigla su delle cianografiche, passa qualche giorno, arrivano le prime copie staffetta, ti ripigli, e se ti propongono un nuovo progetto rischi anche di accettare, perché ormai il trauma del parto precedente lo hai già rielaborato e si ricomincia da capo… Un po’ (soprattutto) perché hai comunque bisogno di lavorare, un po’ perché in fondo in fondo sei un’ottimista, e speri che la prossima volta sarà meglio.

Va bè… magari domani tiro fuori la macchina da cucire e parto con qualche progetto che ho in testa da un po’… i panni da stirare possono aspettare….

Non si può piacere a tutti

Non si può piacere a tutti. È un peccato, ma purtroppo è così.

Per la stessa ragione a me non tutti piacciono. O meglio… Io non sono capace di farmi un’idea alla prima stretta di mano. Se una persona non mi piace non è detto che questo sia per sempre: cambio idea molto facilmente, mi ricredo, mi contraddico.

Ci sono persone che a vent’anni io detestavo e che adesso stimo un sacco, come ci sono persone che a vent’anni adoravo e adesso mi lasciano un po’ perplessa.

Devo dire che Facebook in questo aiuta parecchio: leggere quello che la gente scrive e pubblica te le fa conoscere meglio, comprendi la storia, le idee politiche, i gusti musicali, le intransigenze e le compassioni. Ho letto cose terribili contro rom e stranieri, adulti o bambini che fossero, da persone che poi postano articoli bellissimi sull’amore. Gente che scrive cose bellissime sull’importanza del non considerare i musulmani tutti terroristi, definendo e spiegando nei dettagli tutte le varie correnti, per poi scagliarsi contro i cattolici come se fossero tutti dei nazisti intolleranti. Facebook mostra senza pietà l’ignoranza e la sapienza delle persone, semplicemente mostrando a tutti un “mi piace”.

Tempo fa avevo letto un’intervista a Carmen Consoli che definiva i social “insani” perché mostrano i pensieri della gente. Credo abbia ragione: se bisogna pensare dieci volte prima di parlare, prima di scrivere qualcosa su Facebook bisognerebbe pensarci 100 volte.

Però quante volte in vita mia mi sarebbe piaciuto sapere cosa passava per la testa delle persone: il tipo a cui ho fatto un filo spassionato durante gli anni dell’università e che ovviamente non mi ha mai filato, ma che si sedeva accanto a me in biblioteca, il selezionatore del personale che mi ha fatto i colloqui quando sono stata assunta, alcuni colleghi, le suore che mi insegnavano alle magistrali, alcune amiche che pian piano si sono defilate dalla mia vita. Che cosa pensavano, veramente? Erano felici? Quanto io gli stavo sulle palle? Quanto la mia persona li infastidiva, influiva sul loro umore? Oppure nemmeno si accorgevano della mia presenza?

Leggere i pensieri della gente però non significa capire le persone. Quando leggo io sono sempre prevenuta: leggo il nome di chi scrive e già mi faccio un’idea. Se l’autore è qualcuno che mi sta sulle palle, se quello che leggo è scritto bene ed è condivisibile, mi innervosisco: non so perché mi succede, ma mi da fastidio. Immagino che lo stesso succeda quando qualcuno a cui sto antipatica legge quello che scrivo: immagino che lo possa trovare saccente, autoreferenziale, egocentrico. Credo che sia così un po’ in tutte le circostanze: lo stesso gesto, la stessa frase possono essere valutati in modi diametralmente opposti a seconda da chi la pronuncia.

È una questione di credibilità: quello che fa la differenza è la credibilità di chi la pronuncia e dalla disponibilità a crederci di chi ascolta.

E nonostante tutto questo, io non so perché scrivere dei fatti miei su un blog mi dia così consolazione: forse è un rigurgito adolescenziale, è l’esigenza di spiegarmi, di condividere pensieri e angosce, anche se sono consapevole che non si può piacere a tutti… Questo l’ho capito più di vent’anni fa in una biblioteca…