Senza paura

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Voglio vivere senza paura.

Paura di sbagliare, paura del mio vicino di casa, paura delle persone strane sull’autobus, paura di chi chiede l’elemosina, paura di chi è diverso.

Sono stanca di aver paura, stanca di chi mi vuol far paura, stanca di chi mi dice di chi aver paura. Stanca di sentirmi dire solo quello che non ho, quello di cui avrei diritto, stanca di sentirmi derubata e non vedere quello che invece ho, il tantissimo che ho.

Voglio essere ingenua, voglio vivere leggera, voglio fidarmi delle persone perché se poi mi fregano, mi sfruttano, mi fanno del male non deve essere un mio problema, voglio poter dire “pazienza, è andata così”. Voglio che i miei figli non abbiano paura di rischiare, che abbiano spalle abbastanza larghe per affrontare le delusioni senza farsi abbattere, voglio che abbiano fiducia nel futuro, nelle persone che incontrano. Voglio che camminino per strada sicuri, a testa alta, anche se le strade non sono sempre sicure, anche se chi si incontra non sempre ha buone intenzioni. Voglio che sorridano sempre, anche quando va tutto storto.

La paura rende deboli, la paura rende fragili, la paura fa perdere occasioni, la paura mostra solo il brutto, nasconde il bello, la paura rende ignoranti.

Vorrei avere coraggio, sempre, anche quando non è facile, anche quando il buon senso dice di mollare, di rimanere a casa. Il coraggio di guardare tutto da una nuova prospettiva, voglio essere capace di non smettere mai di cambiare prospettiva.

Voglio avere le rughe ai lati della bocca causate dalle risate e non quelle tra gli occhi corrucciate. Non voglio odiare nessuno.

Non voglio preoccuparmi. Voglio “guidare la mia canoa” seguendo il fiume, affrontando le rapide, le rocce, mettendocela sempre tutta senza preoccuparmi di come stanno guidando la loro canoa gli altri, ma aiutando chi è in difficoltà senza chiedermi perché è finito nel pantano, evitando chi mi vuol tagliare la strada, cercando di non tagliarla a nessuno. Voglio fare tutto quello che è in mio potere fare e lasciare ad altri quello che non è in mio potere. Voglio fidarmi.

Voglio che il mio senso di giustizia traspaia dalle mie azioni e non dalle mie parole, che la giustizia non sia solo quella che riguarda solo il mio interesse ma quella che riguarda tutti.

Voglio non aver paura di essere compassionevole, retorica, banale, perché non voglio essere cinica anche se va tanto di moda, anche se fa “tanto intelligente”.

Voglio essere semplice, voglio mettercela tutta e poi lasciare che vada da sé.

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25 aprile

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Domani è la festa della liberazione.

Festeggiamo qualcosa che abbiamo avuto in eredità senza nessun merito nostro.

La libertà che i nostri nonni hanno dovuto riconquistare dopo essersi resi conto di aver fatto grandi sbagli di valutazione, pagando molto caro l’errore. Sì perché il fascismo in principio non è stato imposto alla maggior parte degli italiani con la violenza, ma si è insinuato nelle vite della gente a suon di slogan, frasi ad effetto, manifestazioni faraoniche, opere civili importanti.

Il fascismo ha fatto presa perché ha cominciato a mostrare solo una parte di realtà, facendo leva sulle insicurezze della gente, sulle sue paure, gli ha offerto una risposta sicura a tutte le domande, ha fatto in modo che le persone non si chiedessero più cosa era giusto e cosa era sbagliato con la propria testa. Gli ha risparmiato la fatica di valutare le situazioni, gli ha dato la sicurezza di non sbagliare mai, gli ha evitato l’umiliazione di potersi ricredere, di cambiare idea, perché il dubbio di stare sbagliando semplicemente non era ammesso. Gli ha dato la certezza di essere sempre nel giusto, gli ha fornito nemici da combattere, gli ha indicato chi disprezzare, li ha convinti di essere “meglio”, ha giustificato i propri egoismi, ha soffocato l’empatia, ha ucciso la pietà. Per tutto questo gli ha chiesto “solamente” di affidare ad un uomo solo il proprio destino, il proprio pensiero, la propria capacità di giudizio.

Ho avuto occasione di vedere libri di scuola delle elementari di quegli anni e sono chiarissimi: ai bambini si insegnava a venerare il Duce, a riporre in lui piena fiducia. Si spiegava con parole semplici e disegni – che se non fossero inquietanti troverei anche bellissimi – la superiorità della loro razza, l’inferiorità delle popolazioni africane, si esaltava la patria da difendere da nemici e si indicavano quali dovevano essere i nemici da combattere. Ed erano libri unici, uguali per tutti i bambini d’Italia, o almeno per quelli che a scuola ci andavano. Ed è facile capire perché sotto il fascismo la scuola fosse così importante.

I metodi forti, la violenza, erano riservati per chi proprio non ce la faceva a non avere una testa libera, a far finta di niente, a pensare solo al proprio tornaconto e dove la propaganda non arrivava, arrivava l’intimidazione, le botte, la paura. Gli spiriti liberi, gli indomiti, le coscienze vive, i dubbiosi, non erano la maggioranza, ma c’erano e sopravvissero nonostante tutto.

Il 25 aprile per me è festeggiare la capacità di giudizio, la libertà di pensiero, è il ricordare come il male può insinuarsi travestito da senso di giustizia, come parlare per slogan è più semplice e meno faticoso che ragionare sul significato di quegli slogan, come l’indifferenza non è innocente, come le parole abbiano un potere immenso.

Nella storia degli avi dei miei figli c’è tutto: comunisti, democristiani, partigiani, militari rimasti fascisti dopo l’8 settembre, militari che dopo l’8 settembre si tolsero la divisa, monarchici, gente semplice che voleva solo sopravvivere. Ognuno di loro ha agito pensando di essere nel giusto. Oggi, con il senno del poi, so che non tutti lo erano. Ed è proprio in virtù del “senno del poi” che domani festeggerò, perché gli slogan ci sono ancora, perché c’è ancora chi mi vuole convincere che noi siamo meglio di altri, perché c’è ancora chi mi vuole indicare un nemico, perché c’è ancora chi vuole il mio cervello chiuso, la mia pietà soffocata, il mio egoismo esaltato. Perché la libertà è un diritto di tutti ed è un dovere di chi ce l’ha fare in modo che tutti possano averla, anche se costa, anche se è difficile. Altrimenti non è libertà.

Buon 25 aprile.

Ho perso le parole

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Ho perso le parole, come cantava Ligabue.

Non so che dire. Tra tre giorni festa della liberazione, tre giorni fa una tragedia per chi ancora insegue la propria liberazione.

E io ho perso le parole.

Che cosa scrivo? Qualcosa di divertente che non c’entra niente?
Qualcosa di impegnato, riflessivo?

A chi serve? Ma davvero le parole servono? Ma chi le legge? Chi le capisce?

Tutto può essere travisato, tutto può essere interpretato, a tutto si può dare il significato contrario, basta instillare la malafede, basta dare giudizi a chi scrive e non a cosa è scritto, basta non pensare a quello che si scrive, basta aprire la bocca e dare fiato, basta scrivere senza fare lo sforzo di capire di cosa si sta scrivendo.

In questi giorni hanno scritto tutti, eppure adesso siamo ancora più barricati sulle nostre idee, nonostante centinaia di tweet, blog e articoli, nonostante immagini tremende, nonostante parole dette a caso, parole pensate, parole ragionate, parole riportate, parole citate, parole cattive, parole retoriche, parole arrabbiate, parole buoniste, parole strumentalizzate, parole vere.

E io ho perso le parole.

Il fascino della ballerina

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La mia adolescenza è stata scandita dalla visione di alcuni film: Flashdance, Staying alive, Footloose e Chorus line.

Mi piaceva ballare, ma più di tutto mi piaceva l’idea della vita dannata delle ballerine.

Ogni pomeriggio mi sciroppavo “Fame – Saranno famosi” e come chiunque abbia avuto 13 anni negli anni ottanta, mi mettevo scaldamuscoli e maglioni oversize. E ci andavo in giro senza vergogna. Ho fatto per due miseri anni danza, ma sono stati sufficienti per darmi l’idea di cosa avrebbe potuto significare per me essere una ballerina.

In realtà il primo approccio con il fascino del mondo della danza lo ebbi da piccola, quando mia cugina mi regalò le sue vecchie scarpette di danza classica con le punte di gesso. Io sulle punte ci riuscivo ad andare senza fatica sul pavimento della mia cameretta ma una cosa la capii da subito: io il fisico da ballerina non lo avrei mai avuto. Troppo alta, fin da piccola. Lo capivo così bene che non mi azzardai mai a chiedere un corso di danza classica. E così mi facevo bastare le scarpette di mia cugina e i passi che mi inventavo su musiche che erano solo nella mia testa. Ma quando vidi per la prima volta Flahdance capii che non c’era solo la danza classica e mi iscrissi a danza moderna. Poi arrivarono Staying alive e Chorus line. Avrei dato qualsiasi cosa per poter camminare per strada con un borsone e l’aria stravolta ma soddisfatta di chi ha ballato per ore.

Che cosa c’è di più affascinante di una sala prove e di un ballerino che suda studiando dei passi, provando e riprovando finché i movimenti non sembrano del tutto naturali e privi di sforzo?

Ma intanto erano arrivati i 15 anni e la consapevolezza che quella non era la mia vita: troppo tardi per cominciare e di certo senza un vero talento e una vera passione tanto valeva risparmiare i soldi di corsi costosi.

Però ho conosciuto la bellezza di muoversi con dei passi, studiare una coreografia, sentire il tuo corpo libero di muoversi, essere molto corpo e poco ragionamento.

Poche cose come la danza esprimono bene il concetto di passione direttamente collegato al sacrificio, come ben sanno gli appassionati di “Fame”: “Voi fate sogni ambiziosi, successo fama, ma queste cose costano, ed è esattamente qui che si comincia a pagare… col sudore”.

Io ringrazio il cielo che ai miei tempi non ci fosse “Amici” perché non so cosa ne sarebbe stato di me e della mia psiche…

Che facciamo quest’estate?

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Nella mia vita precendente devo aver viaggiato troppo. Oppure ero una ricca signora zitella abituata ad essere servita e riverita. Probabilmente commisi soprattutto peccati di ignavia, ma forse non poi così tanti, insomma, quanto basta perché oggi, per la legge del contrappasso, io non possa permettermi un autista, la first class, un hotel a 4 stelle, la possibilità di partire quando voglio in qualsiasi momento dell’anno con un interprete.

A me viaggiare piacerebbe un sacco, se non fosse che ogni viaggio mi richieda la scelta di una destinazione, la ricerca di un mezzo di trasporto, un posto dove dormire e la conoscenza delle lingue. Il tutto considerando un budget di certo non milionario e gli impegni di 5 persone.

Ogni anno quando si arriva ad aprile e parte la domanda “che facciamo quest’estate?” rimpiango di non avere a portata di mano un ansiolitico.

C’è gente che si diverte a spulciare carte, guide e internet alla ricerca dell’offerta, del posticino esotico, dell’angolo di paradiso. Per loro la vacanza inizia con la sua preparazione, soltanto immaginando e decidendo dove andare.

A me mette ansia.

Per farmi felice, datemi un orario, un pullmann, un braccialetto “all inclusive” al polso e un ombrellino rosso da seguire.

Perché il mio problema è la scelta, la lingua e il trasporto.

Le mie vacanze sono spesso scandite da dubbi amletici: compriamo i panini o ci infiliamo in un ristorantino? Se andiamo per il ristorantino, quale dei 25 che ci sono lungo la via? Quello che sembra una topaia ma è pieno di gente, quello carino ma che forse è carissimo, quello che sembra alla mano ma che forse è una trappola per turisti? Per il dormire pensavo di aver risolto 5 anni fa quando abbiamo comprato un camper: in questo modo pensavo di scampare il pericolo di finire in bordelli travestiti da alberghi o in b&b che sembrano gestiti dai protagonisti di criminal minds. Ma i dubbi amletici ci sono sempre: andiamo in campeggio o cerchiamo l’area camper? Ma questa è un’area camper? Non è che nel mezzo della notte sbuca fuori il protagonista di criminal minds che è scappato dal b&b dopo aver sgozzato tutti ma che ormai è in preda alla sua escalation assassina? Come si dice in francese “dove posso svuotare il cesso”?

Il consorte, che ormai fa le vacanze con me da 20 anni lo sa bene, e ogni anno che passa mi tratta sempre più come una cliente dei Viaggi Organizzati Opera Pia Terza Età. Mi fa parlare, mi chiede cosa ne penso, ma poi quando finalmente si parte io non so mai bene dove stiamo andando.

Cercare un orario di un treno, di un volo, per non parlare di alberghi, mi manda in confusione.

L’uso della macchina con me come autista è fuori discussione. Quando d’estate da Milano devo arrivare in Val Camonica con madre e tre figli, strada che conosco ormai da quasi vent’anni, devo prepararmi psicologicamente una ventina di giorni prima, fare sedute di Yoga, e comunque il viaggio dura il triplo di quando si va con il consorte, perché io al primo camion mi metto dietro e morta lì. Il sorpasso è per me come fare bungee jumping, anche sulla Milano Brescia, quella con 4 corsie. Figuriamoci andare in posti mai visti prima. E non c’è navigatore che tenga: a me ci vorrebbe un pilota automatico.

Però a me viaggiare piace un sacco.

Non è una questione di sostanza, ma solo puramente di mezzi.

Vi stimo molto

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Quando all’inizio del 2006 decisi di dare le dimissioni e rinunciare così per sempre al posto fisso in una casa editrice, la visione di due film che vidi per caso in tv mi diedero il coraggio definitivo per compiere il grande passo.

Uno era “La febbre” (si, si… quello con Fabio Volo…) e l’altro “Volevo solo dormirle addosso”. Sì, va bè, non hanno fatto la storia del cinema italiano, ma li vidi al momento giusto della mia vita e poi dai, diciamocela tutta, io non sono una grande intenditrice di cinema… A me piacciono i film italiani perché li posso capire fino in fondo, mi piacciono i film che raccontano storie normali, anche se la fotografia, la regia, gli attori e la sceneggiatura non sono da Leone o Orso d’oro.

Comunque, in “Volevo solo dormirle addosso” secondo me è contenuta una grande verità.

Il protagonista, uno splendido Giorgio Pasotti con ancora il fascino di “Distretto di polizia”, interpreta un giovane rampante che nella prima scena del film svela una grande verità: ciò che motiva le persone non sono i soldi, non sono le ferie, non sono le sfide ma sono i complimenti perché generano benessere e motivazione. E così lui si ritrova a rivolgere a tutti, compresa sua madre, un geniale “ti stimo molto”.

Come ha ragione… Quando riscuotiamo successo, quando la gente ci fa i complimenti, quando piacciamo, ah come si sta bene.

Ci si stampa in faccia un bel sorriso, ci sentiamo invincibili, tutte le sfide diventano possibili, siamo pronti a dare del nostro meglio. La vita diventa più bella. Quando a me succede, accetto anche le critiche più serenamente, in modo più costruttivo.

Dovrebbero istituire per legge che a scuola ogni bambino deve ricevere almeno 1 complimento al giorno. Poi possono venire tutte le critiche e i rimproveri necessari.

Se fosse così per tutti, ci sarebbe meno gente frustrata, incattivita, inacidita, alla ricerca del difetto altrui per poter dire a se stesso “io sono meglio”.

In realtà credo che il genere femminile, anche se forse inconsapevolmente, questa grande verità la conosca bene. Ecco perché molte donne trovano molto più efficace e salutare di un antidepressivo andare dal parrucchiere o comprarsi un paio di scarpe. Perché hanno capito da tempo che un “ma come stai bene” o “queste scarpe sono una favola” hanno l’effetto benefico di darti la forza di affrontare una casa che fa schifo, le litigate dei figli, i problemi di lavoro.

Quindi, cara famiglia, sappiate che se ieri ho comprato due paia di scarpe su Zalando, l’ho fatto anche per voi!

Vi stimo molto.

Lungo gli argini dell’Adige

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Io non so se mia nonna mi abbia mai voluto bene. Ovviamente mi riferisco a questa nonna qui, questa che mi guarda dalla foto in bianco nero della lapide della tomba di famiglia. Dell’altra nonna non ho dubbi: mi ha amato tantissimo e l‘ho amata tantissimo. Ma questa qui, dal cognome inequivocabilmente veneto, io non l’ho mai capita veramente. Da bambina la osservavo quando la domenica dopo la messa con mio fratello e mio papà si andava a farle visita. Ogni domenica il rituale era lo stesso: si entrava, si salutava educatamente ci si toglieva il cappotto e noi bambini ci andavamo a sedere su due seggioline accanto alla finestra, difronte alla poltrona della nonna, quella dove lei passava le giornate guardando il traffico di viale Corsica. Lei si accomodava e per pochi minuti ci interrogava su come stavamo e su come andava la scuola. Da ex maestra, di quelle di una volta, di quelle che avevano insegnato quando c’era “lui”, la scuola era l’argomento preferito. Eppure, sebbene io andassi abbastanza bene e avessi sempre bei voti, mi trattava come se fossi un po’ “tarda”, come se più di tanto a me non si potesse chiedere. Comunque, dopo l’interrogatorio, io e il brother ci prendevamo una vecchia settimana enigmistica a testa e ci dedicavamo al “riempi lo spazio” o “unisci i puntini” mentre mio papà chiacchierava con i suoi genitori. Dopo una mezzoretta, si salutava e si tornava a casa. Non c’era permesso girare per casa e ricordo che se potevo evitavo anche di chiedere di andare in bagno.

Adesso che sono qui, davanti a questa tomba trascurata, ornata solo da fiori secchi e cosparsa da uno strato di muschio umido, quello che provo è compassione. Niente a che vedere con il magone che mi piglia davanti alla lapide dell’altra mia nonna, che al cimitero del suo paese, nella bassa mantovana, è lassù in alto, così in alto che per metterle i fiori bisogna arrampicarsi su una scala.

Su questa tomba di famiglia invece sarebbe così comodo disporre mazzi di fiori freschi, ma io non ne ho nemmeno uno. Lungo la strada che costeggia l’Adige e che ci sta portando da Venezia a Verona non abbiamo visto nemmeno un fiorista, anche se ad essere sinceri non è che l’abbia proprio cercato… Comunque, con i bambini ci armiamo di forbici e scopa e cerchiamo almeno di aiutare a riprendersi queste due piantine che qualche anima pia deve aver portato qui il giorno dei morti 4 mesi fa e che ora non sono altro che un cespuglio di rametti rinsecchiti. Però si intravede del verde alla base: forse se le potiamo e le innaffiamo si ripigliano e qualche fiore magari riesce a spuntare di nuovo.

L’essere stata tolta ancora bambina alla sua mamma rimasta vedova per essere affidata con le sue sorelle allo zio benestante che la mise immediatamente in collegio, credo che non l’abbia certo aiutata a coltivare l’amore per il prossimo. Credo fosse incapace di amarmi, ma questa cosa non mi ha mai ferita. Piuttosto incuriosita. Da bambina io la temevo un po’, e il fatto che lei mantenesse con me un educato distacco mi rassicurava. Io di coccole ne avevo già a sufficienza dall’altra nonna, quella che mi accarezzava la testa ogni volta che la poggiavo sul suo grembo, quella che era sempre orgogliosa o preoccupata per tutti i suoi nipoti, ognuno per un motivo diverso, quella che si scandalizzava divertita quando le raccontavo quello che facevo agli scout, quella che mi faceva fare di tutto in casa sua, come aprire tutti i cassetti, rovistare nell’armadio alla ricerca di vecchie fotografie o vestaglie per travestirsi, oppure nella dispensa alla ricerca del cioccolato, quella che mi diceva quanto ero bella quando giocavo con la sua mantellina per pettinarsi e che io usavo come velo da sposa. Dell’altra nonna io ricordo le espressioni in dialetto, la forma della mani, il profumo.

Di questa invece ricordo solo l’odore di chiuso della sua casa, dove tutto era in ordine e nulla si poteva toccare. Eppure quanto di questa donna è arrivato sino a me attraverso mio padre. Che mi piaccia o no, fa parte di me. Lo ritrovo nel mio fastidio quando nei negozi i bambini toccano tutto, lo ritrovo nella mia incapacità di infrangere le regole, nell’ansia che mi viene per quello che possono “pensare gli altri” quando i miei figli si comportano male per strada, quando sono maleducati con gli estranei, quando mangiano scomposti in un ristorante. Lo ritrovo nel non essere assolutamente espansiva e nella mia avversione per baci e abbracci. Il nervoso che mi prende lo sento arrivare dal profondo, da una parte di me che per quanto io detesti e cerchi di sopprimere, è lì pronta a risvegliarsi in qualsiasi momento.

Non so se mia nonna mi abbia mai voluto bene, ma fa parte di me e della mia storia e questo mi permette di provare affetto per il ricordo di questa donna dal carattere forte e difficile che negli ultimi anni della sua vita non sapeva chi io fossi e che per questo io smisi di andare a trovare senza tanti sensi di colpa. Forse oggi davanti a questa tomba trascurata tutto è perdonato, ma forse più semplicemente non c’è mai stato nulla da perdonare. Almeno da parte mia.

Caro Jovanotti

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Caro Jovanotti.

Non so se i cantanti fanno le rivoluzioni. Non so quanto influiscono sulle sorti di un Paese. Ma ne sono l’immagine, lo raccontano, sono un po’ una cartina tornasole. Soprattutto quelli molto famosi, quelli che vendono un sacco di dischi. Come te.

Oggi ho letto sui giornali di un battibecco tra te e Salvini in cui poi si è inserito Fedez.

Tu sei stato te stesso. Moderato, rispettoso, ognuno ha il diritto di esprimere il proprio parere. Poi si è inserito Fedez e anche a lui hai risposto pacato, sempre corretto, con la giusta distanza.

Ti ho apprezzato.

E ho capito che siamo diventati anziani.

Nonostante il tuo entusiasmo, la tua voglia di rivoluzione ai miei occhi si è spenta con quel twit. Ho capito che chi cambierà le cose, se mai cambieranno, non saremo più noi. Ci sentiamo ancora giovani, abbiamo voglia di fare, ma abbiamo preso un po’ la strada dell’ “hanno tutti ragione”.

I giovani invece, quelli veri, indipendetemente dall’anagrafe, sono quelli che dicono le cose come stanno, anche se sono scorretti. Se ne infischiano delle intenzioni, del particolare e delle sfumature. E fanno le rivoluzioni.

Dai… io mi ricordo quando tornando da scuola vedevo le ragazzine deliranti davanti al Rolling Stone in attesa di vederti “fare casino” e urlare “gimme five”. Per me eri un idiota. Poi le cose sono cambiate, hai cominciato a parlare una lingua che era anche la mia e sono diventata grande avendo come colonna sonora anche le tue canzoni.

Anche tu sei stato scorretto in passato, ad esempio con la frase contro Oriana Fallaci. E questo ti rendeva giovane. Dubito che rifaresti una cosa del genere ora.

Invecchiando si diventa un po’ vigliacchi.

Non hanno tutti ragione, lo sappiamo benissimo. Ma abbiamo cominciato a pensare come i nostri padri, perché l’esperienza ci ha insegnato che non cambia mai nulla. E quindi adesso, che di fare la rivoluzione non ne abbiamo più tanta voglia, preferiamo trovare del buono in tutti perché sogniamo un mondo dove tutti possano vivere in pace e sereni. Primi fra tutti, noi stessi.

Più andrò avanti, più credo che cercherò nuove strade per evitare il conflitto, per tenere aperto il dialogo con tutti,cercando il buono e il bello in ogni cosa.

Ma sotto sotto io lo so… io faccio il tifo per Fedez.