Diventare grandi

Il gruppo scout ha organizzato una cena come autofinanziamento.

Per chi non è pratico di scoutismo, la primogenita è al primo anno di quello che è chiamato “reparto”, un insieme di ragazze e ragazzi dai 12 ai 16 anni. In poche parole, un concentrato di ormoni in crescita. Questo per lei è il quinto anno negli scout, ma i primi quattro li ha passati nel branco dei lupetti, una bella famiglia felice dove sono tutti bambini che giocano a vivere nella giungla, dove maschi e femmine sono tutti “lupetti”.

Da settembre invece è passata nel gruppo dei più grandi, il “reparto” appunto. La prima volta che ho visto i ragazzi del suo gruppo non vestiti di blu è stato a settembre. Faceva caldo, l’appuntamento era presso un capannone di via Mecenate, periferia est di Milano, praticamente dietro la casa dove sono cresciuta. Sarà stato il luogo, saranno state le canottiere, saranno stati i pantaloni a vita bassa, sarà che i capi tardavano ad arrivare, sarà che mi ero abituata a vedere la mia bambina come la più grande mentre ora mi sembrava piccola e indifesa nonostante il suo metro e sessantotto, ma ho fatto fatica a lasciarla lì, con quelli che mi sono sembrati un gruppo di truzzi.

Sono passati 8 mesi e arriva l’invito a questa cena. A onor del vero non è che la primogenita fosse del tutto convinta di invitarci, ma alla fine, a malavoglia, ci ha detto di andare. Era richiesto un abbigliamento elegante.

Faccio del mio meglio per sembrare qualcosa di simile a una donna di mezza età che ha cura di sé e arrivo in questo oratorio apparecchiato di tutto punto. Mentre il consorte va a cercare parcheggio, varco la soglia e mi si palesano degli esseri in camicia bianca e pantaloni scuri. Belli come il sole, si rivolgono a me dandomi del lei, prendono il mio nome e mi dicono di accomodarmi.

I truzzi di otto mesi fa si sono trasformati in splendidi ragazzi. E a me succede una cosa orrenda, mi piglia una nostalgia pazzesca per quando ero io ad essere la più piccola e ripenso a quando i truzzi del mio reparto erano ai miei occhi bellissimi, mi ritorna in mente quello che provavo io quando li vedevo, il mio primo vero innamoramento con conseguente rincoglionimento totale. Vedo la mia “bambina” che si aggira sorridente e allegra tra questi uomini in erba. E dentro di me si scatenano due sentimenti opposti: da un lato l’istinto di prenderla e portarla sulla luna per risparmiarle le sofferenze e i travagli degli innamoramenti che sicuramente arriveranno con quella tempesta di emozioni violente che solo a quell’età si provano, dall’altro vorrei dirle “vivitela tutta”. Perché so cosa vuol dire innamorarsi a 16 anni, perché so che tra mille innamoramenti ne capita sempre uno che non si dimentica, che rimane in un angolino del tuo cuore e lì rimane per sempre.

Sono lì assorta nei pensieri, quando finalmente appare il consorte. Me lo guardo e vedo la strada fatta insieme. Lui che è arrivato al momento giusto. Lui che è sempre stato “casa”. Lui che non è stato il mio primo amore, ma che è il mio amore. Lui che non mi ha mai fatto soffrire, che non mi ha mai fatto sentire inadeguata, o sbagliata. Lui che non mi ha mai chiesto di essere diversa da quello che sono, lui che qualche volta mi fa incazzare come pochi, che litiga con me ma che non mi rinfaccia mai niente. Lui che so che mi ama.

Ci sediamo a tavola e mi ricompongo. Torno ad essere una madre quarantaquatrenne e vorrei abbracciarmi i miei bambini e dire loro che gli voglio bene, che diventare grandi è bellissimo, che innamorarsi è bellissimo. Mi passa accanto la primogenita, la chiamo per salutarla e le chiedo i nomi di alcuni ragazzi che non ricordo… “mamma, non rompere!”

Ok, dicevamo?

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