Quando ero bambina il rientro dalle vacanze mi piaceva un sacco. Ricordo l’agitazione che mi prendeva quando vedevo apparire dalla tangenziale i palazzi del mio quartiere, quando riconoscevo l’uscita che imboccava mio papà, quando rivedevo strade così familiari.
Mi piaceva aprire casa, sentire l’odore di chiuso, tirare su le tapparelle e ritrovare la mia stanza, il mio letto, i miei giochi, le mie cose. Quando si è piccoli un mese, tre settimane, ma anche solo 15 giorni sono tantissimi, praticamente una vita.
Noi spesso finivamo le vacanze verso ferragosto, per cui poi avevamo una quindicina di giorni da trascorrere nella Milano deserta e assolata, quella dei negozi chiusi e delle strade frequentate solo da anziani, pazzi e tossici.
Qualche volta siamo stati al parco Sempione dove c’erano giochi e iniziative per i bambini, ma la maggior parte del tempo la trascorrevo in casa a finire i compiti e a fare giochi idioti con il fratello. Il più divertente che ricordo era quello di registrarci sul mangianastri come se fossimo due speakers radiofonici. La nostra trasmissione si chiamava “Bibitestate”: spiegavamo ad ascoltatori inesistenti come fare bibite sopraffine mescolando sciroppi di tutti i gusti e triturando il ghiaccio.
Il resto del tempo lo passavo ad aspettare annoiata che qualche amico del palazzo tornasse dalle vacanze: mi mettevo sul balcone come la piccola vedetta lombarda e controllavo il vialetto davanti a casa.
Quando finalmente qualcuno appariva, facevo il comitato accoglienza: gli lasciavo giusto il tempo di scendere dalla macchina e poi via, tra i vialetti del quartiere a giocare o sui muretti a chiacchierare raccontandoci la nostra estate. La fine delle vacanze era sancita dall’arrivo di un gruppo di bambini abbastanza consistente da ottenere il permesso di andare da soli fino alla gelateria della piazzetta, per raggiungere la quale dovevamo attraversare ben tre strade praticamente deserte.
Ma per me la fine delle vacanze era determinata soprattutto dalla spedizione famigliare in uno dei primi centri commerciali fuori Milano a comprare quaderni, cartella, astuccio, biro e matite. L’evento era così straordinario che ci era permesso addirittura comprare, nel reparto pasticceria, una vaschetta di bignè che potevano essere mangiati direttamente in macchina sulla via del ritorno.
A quel punto non mi rimaneva che desiderare fortemente l’inizio della scuola, per poter usare e sfoggiare tutte quelle cose nuove.
Oggi le cose sono un po’ cambiate. Rientro in città per me significa un numero indeterminato di lavatrici, fare mente locale di tutto quello che devo prendere per la scuola dei ragazzi, rompere le palle a manetta per ottenere che si finiscano i compiti delle vacanze, rientrare in modalità “lavoro” cercando il bandolo della matassa abbandonato al suo destino prima della partenza.
Eppure, quando si torna, quando vedo apparire dalla tangenziale i palazzi del mio vecchio quartiere, l’agitazione rimane la stessa. Li guardo e mi sembra che mi dicano “Bentornata! Stai tranquilla, siamo rimasti qui noi a fare la guardia: è tutto a posto, tutto è come prima. Puoi ricominciare!”
Ed è a quel punto che provo un irresistibile desiderio di una biro rossa nuova…