Io dico un sacco di parolacce. Lo so. Non sta bene.
Eppure io credo che alcuni concetti con le parolacce rendano meglio. È una scelta stilistica e semantica. Dire la parolaccia giusta al momento giusto senza risultare volgari, burini o truzzi non è da tutti. La prima volta che ho capito la differenza è stato quando vidi “Su la testa” in televisione con Paolo Rossi. Il suo modo di dire “cazzo” al momento giusto era geniale. Era proprio la parolaccia al posto giusto che dava un senso ai suoi monologhi. Senza quella, avrebbero perso di incisività.
In casa mia le parolacce erano bandite e io non le ho dette fino a che sono stata nella casa paterna. Dopodiché è stato un tripudio, soprattutto sul lavoro.
Non tutti sono capaci di dirle senza infastidire, senza essere inopportuni, ma qualcuno ci riesce. E queste persone hanno tutta la mia stima. Al contrario, mi rendono nervosa quelli che intercalano i loro discorsi con “figa” strascicando la “i” come solo i milanesi sanno fare… Ecco, questi io non li sopporto.
Insomma, o le parolacce si dicono bene, o non si dicono. Ma visto che io sono la persona più incoerente che conosca, io le dico. Anche se non sempre al momento giusto, anche se non sempre le dico “bene”.
Però in autostrada uno “stronzo” a chi ti taglia la strada è salutare, ti fa passare lo spavento. Un “minchia” di sorpresa rende bene l’idea del tuo stupore o approvazione. Un “vaffanculo” ogni tanto cura la depressione e rinforza l’autostima. E qualche volta non sei arrabbiata, sei proprio “incazzata”.
Ed è per questo che è da stamattina che nel mio cervello risuona un “che due coglioni”: è ormai da due mesi che almeno una volta alla settimana io disfo borse, faccio lavatrici e rifaccio borse…
Cazzarola… e poi le chiamano vacanze…
P.s. per Carola e Giacomo: questo post non è per voi. Se vi azzardate a dire parolacce in casa usando come scusa questo post siete finiti. Parola di mamma, quella cattiva.