Vorrei… la felicità

Io vorrei che i miei figli fossero felici. Che si volessero bene e che fossero consapevoli di quanto valgono. Sempre.

E questo non significa che vorrei per loro una strada semplice, ma vorrei che avessero una strada interessante, fatta di sfide e ostacoli avvincenti. Vorrei che non avessero paura di affrontarla, di confrontarsi con persone diverse, di accettare sfide, di mettersi alla prova, di osare.

Vorrei che capissero che il giudizio che gli altri hanno di loro non sempre corrisponde a verità, che quello che loro sono, solo loro lo sanno. Vorrei che rispettassero sempre i loro professori, i loro maestri, i loro allenatori. Che avessero fiducia in loro, sempre. Ma allo stesso tempo vorrei che capissero che professori, maestri e allenatori sono solo uomini e donne, e come tali non sempre sono giusti, non sempre hanno ragione, non sempre vedono lungo.

Vorrei che mantenessero vivo lo spirito critico e soffocassero quello polemico. Perché la polemica rende saccenti, la critica fa crescere. Vorrei che imparassero a riconoscere un’ingiustizia e un sopruso, ma che fossero capaci di riconoscere anche un atto di giustizia, anche quando questo significa andare contro i propri interessi.

Vorrei mantenessero viva l’ironia e l’autoironia e che lo facessero anche per me, per ogni volta che io non riesco a buttarla sul ridere, per ogni volta che io mi lancio in loro difesa anche quando forse non ne avrebbero bisogno. Vorrei che mi aiutassero a capire quanto sono forti per non sottovalutarli nel goffo tentativo di proteggerli.

Vorrei riuscire a guardarli sempre con un sorriso rassicurante, di quelli che dicono “vai tranquillo, ce la puoi fare, sei forte abbastanza”.

Vorrei non aver paura che si facciano male perché so bene che il problema non è cadere, ma rialzarsi. Vorrei quindi che loro non avessero paura di farsi male, perché vorrei imparassero che dopo ogni caduta ci si rialza sempre più forti.

Vorrei che avessero fiducia nella gente ma che imparassero a riconoscere a distanza i pirla. Perché la strada verso la felicità passa anche da qui.

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Un giorno di pioggia

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Nel 1993 uscì un film con Sergio Castellito intitolato “Il grande cocomero”. Il film parlava di un neuropsichiatra e di una sua piccola paziente e aveva come sottofondo un ospedale romano, segnato da tagli, inefficienze, opportunismi e degrado. Tra tutti i vari personaggi del film c’era quello di un’infermiera (o  forse era un’inserviente, non ricordo) burbera e disillusa interpretata da Laura Betti. Era un personaggio meschino, insofferente ai piccoli pazienti, stanca del suo lavoro che di certo non faceva per passione. Un giorno, esasperata dalla presenza di un cane in reparto, lo prende e lo butta giù dalla finestra. Quando si rende conto di quello che ha fatto scoppia in un pianto inconsolabile sotto lo sguardo attonito di pazienti, medici e infermieri.

Ma la scena che mi è rimasta più impressa è quella in cui lei aspetta l’autobus in un giorno di pioggia. È chiaramente stanca, reduce da una grossa spesa al supermercato, con le borse piene e un fustino di detersivo in polvere, di quelli di cartone che si usavano una volta. Il fustino è appoggiato per terra e quando arriva l’autobus, e lei stancamente fa per prendere il fustino per il manico, il cartone fradicio cede e tutto il detersivo si sparge per terra nella pioggia. Lei rimane lì. A guardare il detersivo che si sparge a terra, lasciando partire l’autobus e imprecando per il costo del detersivo perduto.

Quando vidi questo film avevo 23 anni, mi stavo per laureare, mi ero appena fidanzata e forse ero al massimo del mio splendore. Quella scena mi colpì, ma non la capiì veramente.

Oggi invece ci sono certe giornate di pioggia, quando niente va come dovrebbe, quando mi scopro più cattiva del solito, quando me la prendo con tutti fuorché con chi dovrei, in cui io mi sento proprio così: stanca di una stanchezza che viene da lontano, accasciata sulla panchina di una fermata di un autobus in un giorno di pioggia, con cinque chili di detersivo che si sciolgono per terra.

Il colore rosa

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Mi è capitato qualche volta di leggere articoli molto divertenti su cosa significhi avere figli maschi. Avendone due ho sorriso molto leggendoli, ma tutte le volte il sorriso mi è morto poi un po’ in bocca. Perché io ho anche una figlia femmina. E certe frasi mi mettono a disagio. Tutti questi articoli sottolineano come i giovani virgulti siano anime semplici, come risolvano tutto con un pallone, dei rutti, di come crescendo riducano lentamente il loro lessico a un susseguirsi di suoni gutturali, e di come le madri di maschi spesso invidiano le madri di bambine di rosa vestite, per poi ricredersi di fronte alla complessità del pensiero femminile, alla capacità di pettegolezzo, alle crisi isteriche adolescenziali. Alla fine il messaggio è sempre quello: maschi semplici e simpatici, femmine complesse e rompicazzo.

E allora io mi chiedo: ma è proprio così?

Se ci penso bene ho incontrato maschietti precisi precisi, bambine maldestre e scoordinate. Femmine carine e belline e altre insofferenti alle gonne e al rosa, bambini con il pallone sempre sotto braccio e altri in difficoltà alla domanda “che squadra tieni?”. Ragazzine con la passione di “Star war” e giovani masculi appassionati di “Violetta”. Ci sono ragazzini molto sensibili che reagiscono in modo scomposto a insuccessi e frustrazioni, altri pedanti e noiosi che ti taglieresti le vene pur di arrivare alla fine del racconto, altri ancora attenti al loro look che neanche Brad Pitt. Ragazzine di una simpatia travolgente, altre a dieci anni già alla ricerca dell’anima gemella, altre ancora che hanno ben chiaro cosa vorranno fare da grandi.

Ma allora che cosa significa essere maschi e femmine? Boh…

E poi ci si mette tutto questo calderone sulla paura del gender, neanche fosse alien…

Sono convinta che uomini e donne si diventi, che il percorso di accettazione del proprio corpo e di quello che si è sia sempre difficile ed è un cammino che, come sto scoprendo io adesso, non finisce mai. Si comincia da piccoli a lavorarci su, a scontrarsi con una società che ti vorrebbe in un certo modo, che considera certi modelli migliori di altri e forse quindi è importante cominciare insegnare ai bambini fin da piccoli a voler bene a se stessi. Perché il problema è che quello che sei non lo puoi cambiare: puoi lavorarci su, puoi imparare a sederti composto, puoi imparare le buone maniere, l’educazione, il rispetto del prossimo, ma se sei alto un metro e sessanta a vent’anni, difficilmente potrai arrivare al metro e ottanta a trenta. Perché se il calcio lo trovi un inutile correre dietro a un pallone, hai voglia a provare a giocare al parchetto con gli altri testosteroni in erba: il calcio ti farà sempre un po’ cagare e non riuscirai proprio a correre entusiasta dietro quel dannato pallone. Chi nasce tondo non muore quadrato.

Se il rosa non ti piace, puoi imparare a non fare urletti disgustati mimando un urto di vomito, ma non è che se continui a vestirti di rosa poi ti piacerà. Potranno costringerti a indossarlo, ma da lì a dire che a te il rosa piace ne passa…

Io, ad esempio, mi sono sorbita migliaia di volte il Signore degli anelli, ma ciò non impedisce al mio cervello di rifiutarsi di memorizzare nomi e luoghi e continuare a chiamare Svitol quell’esserino che cerca il suo tesssoro… E quando sento “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…” non ho un fremito nelle vene come avviene a molti componenti della mia famiglia, eppure l’avrò sentita centinaia di volte.

Non sono multitasking, non mi è mai piaciuto allattare, non sono protettiva, non organizzo merende per gli amici dei miei figli, non metto i tacchi, dico le parolacce, non credo che una casa ordinata e pulita mi renda una donna migliore. Eppure ai miei tempi di gender non si parlava, ho indossato calze bianche e scarpe nere di vernice, ho frequentato una scuola femminile.

Come la mettiamo?

Ormai si sarà capito. A me la teoria gender affascina. Mi affascina come tutte le cose misteriose, segrete, occulte.

E posso capire chi la teme. Se qualcuno costringesse il mio bambino a vestirsi di rosa, forse un po’ mi seccherebbe perché so quanto lui odia il rosa. Quando mia figlia mangia a tavola come un camionista all’autogrill, sono io la prima a trovare la cosa quantomeno “poco femminile”.

Ma mi chiedo, perché tutto questo accanimento contro la fantomatica teoria gender e non invece altrettanta ansia per far sì che a scuola si insegni a rispettare le essenze altrui, i corpi altrui? Davvero pensiamo che se insegniamo ai bambini a mettersi nei panni degli altri loro diventeranno come gli altri? L’esperienza mi dice che quando viene chiesto a qualcuno di essere qualcosa che non si è di solito sono cazzi… e questo era già ben chiaro a quel cattolicone bigotto del Manzoni, che ben lo descrisse con la storia della Monaca di Monza. Hai voglia tu a regalare bambole vestite da suora…

Io sarei più tranquilla se sapessi che a scuola le maestre insegnassero a non escludere i bambini a cui non piace giocare a pallone, a non prendere in giro la bambina diventata donna precocemente o il bambino magrolino e impacciato, o quello a cui piace ballare, disegnare, vestirsi di rosa, che insegnassero l’empatia, la capacità di comprendere il proprio compagno, le sue difficoltà e la sua felicità. Vorrei che non si limitassero a evitare la presa in giro, ma che riuscissero a far vedere che dentro a ogni bambino c’è una persona che ha solo voglia di giocare, di avere degli amici, di diventare grande in un mondo dove ci sia posto anche per lui.

Il rispetto lo si insegna. Anche con le parole. Anche e soprattutto a scuola. Non può essere esclusiva delle famiglie, perché viviamo in una società e la mia famiglia ne fa parte. Quindi posso accendere un cero in chiesa perché mio figlio non sia gay, ma pretendo che la scuola insegni a rispettare chi dovesse scoprire di esserlo e a volergli bene. Pretendo si insegni che non c’è un solo modo per essere maschi e femmine ma che ognuno ha il suo e che questo è una ricchezza per tutti. E soprattutto che tutti hanno il diritto di essere se stessi ed essere felici. Perché accettare la propria croce è un atto di fede libero, e solo in quanto libero dona serenità e pace interiore. Se invece è imposto con la discriminazione e il giudizio sociale è un atto di violenza e prevaricazione. Soprattutto, ma non solo, nei confronti di chi una fede non ce l’ha.

Comunque, ragionando per assurdo, come si faceva a scuola in matematica, e immaginando che nelle scuole insegnino ad essere asessuati e che tra maschio e femmina non c’è differenza, davvero quel bimbo che ho visto al parco l’altro giorno non diventerebbe rosso sbiascicando parole senza senso al saluto e allo sguardo della splendida bambina dalla lunga coda di cavallo? Bah… secondo me no… Forse sarebbe più utile insegnargli a non umiliarla alzandogli la gonna per superare l’imbarazzo e per far ridere l’amico che fa i rutti…

Furore

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Quest’estate in campeggio con noi c’era una ragazzina che per i compiti delle vacanze doveva leggere Furore di Steinbeck. Faceva abbastanza impressione vedere questa splendida tredicenne sull’amaca e in spiaggia leggere un libro del 1939 così grande e così impegnativo e ti veniva un po’ da pensare che forse la sua prof aveva esagerato.

Io non sono una forte lettrice, ma Furore l’ho amato un sacco. Avevo vent’anni quando lo lessi e mi travolse pagina dopo pagina.

In questi giorni, vedendo le ondate di migranti che non si fermano davanti a nulla e i tentativi goffi, spietati e contradditori di chi vorrebbe barricarsi nelle proprie terre sicure e ricche, mi tornano in mente alcuni passaggi di Furore, tra tutti il più celebre: “Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”

E penso che, in una scuola di Roma, una prof (che non conosco, che non so assolutamente se sia una pazza, un’incosciente, se insegna bene o male) abbia forse esagerato ma secondo me ha fatto bene. E che se dei ragazzini hanno ancora la voglia di leggere e qualcuno che gli insegni a farlo, forse, c’è ancora speranza.

Evviva Expo 2015!

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Anche io sono andata all’Expo. E ho imparato un sacco di cose.

Innanzi tutto pensare di andare il giovedì, quando molte scuole sono già iniziate, evitando quindi il week end, il lunedì e il venerdì che ti dicono essere pieni di gente, è un’idea geniale. E infatti è la stessa idea che ha avuto almeno un altro milione di persone. Stamattina su Facebook ho scoperto che almeno 3 dei miei contatti erano lì, aggiunte alle persone che conosco che ho incontrato lungo il decumano, direi che se ci mettevamo d’accordo per andare tutti insieme non ce l’avremmo fatta…

La seconda cosa che ho scoperto è che all’Expo sono tecnologici. Accorgersi sul passante a Certosa di avere dimenticato i biglietti a casa è tremendo, ma scoprire che se hai il pdf sullo smartphone entri lo stesso, è esaltante. Ti fa amare i tuo Paese e la tua città. E ti fa rivalutare il consorte rompicoglioni che non si fida di te e che ti chiede giorni prima di mandargli via mail i biglietti perché vuole vederli e averli anche lui.

Andare all’Expo rende diffidenti e stimola i peggiori sentimenti nascosti in fondo a te. Se sei in coda e davanti a te c’è una gentile signora anziana che ti fa anche un po’ pena perché la vedi sola e per così tanto tempo in piedi, soffoca il tuo istinto empatico. Quando starà per toccare a te a entrare nel padiglione con la coda più lunga, si materializzeranno sotto i tuoi occhi almeno altri venti vecchietti arzilli e riposati che si uniranno a lei al grido “io sono con lei” e riusciranno a entrare tutti prima di te. E tu odierai gli anziani.

Come odierai i neonati e i loro baldi genitori che con aria tronfia passeranno davanti a tutti con la loro carrozzina, dove il loro neonato, a cui non frega una cippa di expo, dorme beato. Provino loro a fare due ore di coda con tre figli dagli otto ai 13 anni e mi dicano chi avrebbe più bisogno di saltare la coda. E non lo dico solo per i rispettivi genitori, ovvero me, ma anche per tutti gli altri poveretti in fila. Se io ho provato l’istinto di sopprimerli, mi immagino gli altri disgraziati costretti ad assistere a dispetti, spinte, prese in giro ma soprattutto alla ripetizione a oltranza di “ho fame”, “ho sete”, “quanto manca”, “che palle” e il fatidico “devo andare in bagno”, che se anche hanno imparato da anni a gestire la loro vescica, hanno la capacità di percepire lo stimolo sempre quando ormai vedi l’ingresso a pochi metri da te.

In ogni caso assicuro tutti che si sopravvive. Certo, torni a casa chiedendoti cosa ci fosse mai al padiglione degli Emirati Arabi dove la fila era stimata di tre ore, oppure cosa potrebbe passare per il cervello a un palestinese nel padiglione di Israele, dove per venti minuti ti spiegano come Israele contribuisce ogni giorno a sfamare il mondo e a rendere il mondo ogni giorno migliore.

Ma capisci anche che in fondo vivere in uno Stato democratico non è poi così male, soprattutto quando vedi padiglioni dove si esalta l’imperatore, il re o il dittatore di turno. Noi almeno possiamo esprime il nostro dissenso ad alta voce anche con toni colorati quando chi ci governa fa una cagata: magari non serve a nulla, ma ti da l’impressione di essere libero.

Ed è già qualcosa. Perché in fondo “chi s’accontenta gode”.

In ogni caso la panca-molletta è stata la mia preferita…

Settembre, ahi settembre…

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Io vorrei essere una brava mamma. Giuro, lo vorrei con tutto il cuore.

Poi però arriva settembre.

Sei lì che stai ancora cercando di togliere la sabbia dalle scarpe e già comincia il conto alla rovescia per l’inizio della scuola.

E in casa l’ansia sale: l’ansia dei tuoi figli per i compiti non ancora finiti, la tua ansia per le scadenze che sai che ti stanno aspettando al varco. Iscrizioni a corsi sportivi che se perdi il treno non trovi più posto, certificati medici, libri da acquistare, cancelleria varia da procurarsi. Ti ritrovi a pensare al plannig settimanale che ti aspetta, l’organizzazione di spostamenti, incastri spazio-temporali che neanche se tu avessi il teletrasporto potresti realizzare. E nel frattempo il lavoro che bussa alle porte perché ora siamo tutti riposati e tonici e “si può ripartire con entusiasmo”

Ed proprio in quel momento, quando stai mettendo a posto le ultime cose usate in vacanza, che sbuca fuori il foglio con i compiti delle vacanze del più piccolo, quello che dovresti seguire di più, quello che più di tutti fa affidamento su di te. E ti rendi conto che quel foglio lo hai perso di vista verso la fine di giugno e adesso ti rivela un sacco di cose che avresti dovuto e potuto fare con il tuo bambino sotto l’ombrellone o nella pace della montagna. E ti rendi conto che in effetti lo avevi letto piena di entusiasmo ma che probabilmente è stato cancellato dalla tua memoria verso la prima settimana si luglio.

Ed è qui che ti accasci sul divano e pensi per l’ennesima volta “non ce la posso fare”.

Se io fossi la Merkel

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Premessa: io non mi occupo di politica, conosco i fatti solo per quello che leggo di sfuggita sui giornali, raramente approfondisco. Per cui tutto quello che sto per scrivere qui si basa su notizie che ho letto su giornali on line distrattamente. Quindi so che chi ne sa più di me può tacciarmi a ragion veduta di qualunquismo e ignoranza. E mi farebbe molto piacere se lo facesse, così ci capirei di più senza fare lo sforzo di addentrarmi in siti e pagine dove capisco poco ma soprattutto capisco poco quali la raccontano giusta.

Dunque, in questi giorni la Germania ha deciso di aprire le frontiere ai profughi siriani. E questa è una cosa buona. Se io fossi Angela Merkel di fronte allo scalpore e all’indignazione provocata dalla foto del bambino in riva al mare avrei fatto lo stesso. E lo avrei fatto non solo per il mio cuore tenero, ma per puro calcolo. I siriani che fuggono non sono gli unici che stanno arrivando. Dall’africa e dall’Asia arriva un sacco di gente: eritrei, afgani, nigeriani, iraqeni. La differenza tra i siriani e tutti gli altri è che i siriani fuggono tutti: uomini, donne, bambini, anziani. La guerra sta spazzando via tutto e tutti per cui chi riesce se ne va con tutta la famiglia nella speranza di offrire un futuro ai propri figli ma soprattutto un presente ai propri cari. Non so bene come siano i rapporti tra turchi, siriani e curdi ed effettivamente non so come questi nuovi arrivi possano rapportarsi con i moltissimi turchi che già vivono in Germania da anni, ma nel complesso penso che fuori dai propri paesi, quando in fondo si è tutti “stranieri”, una soluzione si trova sempre.

Se io fossi Angela Merkel, non potendo più rimanere rinchiusa nei miei confini come forse mi piacerebbe, preferirei rifarmi la faccia di fronte all’Europa accogliendo soprattutto i gruppi famigliari. E i siriani vanno benissimo: non sono neri, fino a qualche anno fa conducevano una vita abbastanza simile alla nostra, non hanno un posto dove poter tornare e quindi ci tengono particolarmente a rimanere. Probabilmente mi costerà un po’ di più in welfare e in istruzione, ma molto probabilmente, per il bene dei figli, i genitori e gli anziani siriani accetteranno ben volentieri le mie regole, i bambini impareranno prima il tedesco e la cultura tedesca facendo da mediatori culturali ai loro genitori.

In questo modo potrei poi rifiutare tutti gli altri senza far gridare allo scandalo, perché in fondo la mia parte l’ho già fatta.

Potrei rispedire al mittente tutti questi ragazzi dalla pelle scura che viaggiano da soli, senza genitori e senza anziani al seguito. Anche questi hanno bisogno di scuole perché molti hanno interrotto studi già iniziati da altre parti, ma è più difficile inserire qualcuno in un percorso formativo piuttosto che fargliene iniziare uno dal principio. Questi per potersi mantenere hanno bisogno anche di lavoro ma in forza alla loro giovane età potrebbero piegare la testa più difficilmente, potrebbero rivendicare dei diritti. E l’irresponsabilità dei loro vent’anni potrebbe far loro seguire più facilmente strade pericolose, potrebbero stufarsi di fare i pezzenti e potrebbero scegliere altre vie per cercare di arricchirsi.

Se io fossi la Merkel questi non li vorrei. E chissenefrega se anche loro scappano da regimi, se la loro vita è comunque in pericolo nei loro Paesi anche se una guerra vera e propria non c’è. Perché in fondo chi sa chi è Boko Haram, non ammazza mica giornalisti americani e europei, lui ammazza solo i nigeriani. Perché in fondo è da cinquant’anni che vediamo bambini neri morire di fame o assistiamo distrattamente a massacri che poco ci riguardano. Noi ci siamo abituati, perché anche loro non si abituano?

Io spero che la Merkel non ragioni così. Perché così ragionano molti italiani. Perché sarebbe uno spreco enorme. Perché lo spreco c’è già qui in Italia. Perché a vent’anni puoi veramente cambiare il mondo, hai le idee più belle, hai il coraggio, la passione, credi ancora in qualcosa.

Perché quello che mi colpisce di più ogni volta che vedo un servizio sui centri di accoglienza, è lo spreco di “capitale umano” che compiamo ogni giorno. È uno spreco che mi scandalizza di più di tutto l’approfittare della situazione da parte di chi su queste persone comunque ci sta guadagnando. Perché se io fossi eritrea e mi ritrovassi a dover fuggire dal mio paese per qualsiasi ragione e mi ritrovassi in un posto dove la gente mi urla dietro e mi insulta perché mi trovo in un centro di accoglienza a loro spese (sempre che questo sia vero) ma allo stesso tempo mi impedisce con le sue leggi di uscire, di cercarmi un lavoro, di frequentare le scuole e rendermi utile, ecco io forse coverei un po’ di rancore nei loro confronti e non so se avrei tanta voglia di darmi da fare per loro…

A forza di “prima gli italiani” mi sa che ci ritroveremo vecchi, soli e ignoranti, attaccati alla nostra roba, chiusi nei nostri ricordi di antichi splendori, un po’ come quei vecchi incattiviti che vivono in topaie con i materassi pieni di soldi, che non fanno entrare nessuno in casa per paura che gli rubino tutto. E che poi li ritrovano morti dopo mesi perché nessuno si è accorto della loro assenza. Perché il mondo va avanti nonostante noi.

Io invece mi immagino vecchia, con una casa piccola ma pulita, con le finestre aperte da dove entra sempre il sole, e mi immagino trascorrere i pomeriggi su una panchina a ridere e a scambiarmi ricette con gente proveniente da tutto il mondo.

Ecco, anche se non so cosa pensa veramente, io oggi sono felice di non dover essere la Merkel.

Nel chiuso del mio divano

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Quando ho cominciato a scrivere questo blog otto mesi fa, l’ho fatto perché ne avevo bisogno.

Io non so se è normale, se è così anche per gli altri, ma quando io sono sul tram, quando carico la lavatrice, quando guardo fuori dalla finestra o mentre sto guidando, nella mia testa i pensieri scorrono come se io li stessi scrivendo. Scelgo le parole, penso alla punteggiatura, all’intonazione.

Vorrei esistesse una macchina capace di trascrivere i miei pensieri direttamente sulla tastiera, perché quando poi mi metto a scrivere veramente, le mie dita sono più lente e non riescono a starci dietro e io mi perdo i pezzi.

Certe volte penso ai fatti miei, altre teorizzo sui problemi del mondo, altre ancora mi preparo frasi ad effetto da sfoderare in situazioni che temo e che mi mettono ansia ma che quasi mai poi si realizzano.

Da quando scrivo qui, ho scoperto che mi piace che altra gente legga i miei pensieri, mi gratifica sapere che a qualcuno piacciono, mi piace pensare al piccolo gruppo di persone che ogni volta che pubblico qualcosa si affaccia alla mia testa e ci sbircia dentro. Mi piace leggere altri blog, sbirciare nella testa di altri, scoprire analogie, differenze, sentire pareri diversi, vedere le cose da altre prospettive. Mi illudo che così facendo la mia testa si apra, mi sembra di fare qualcosa di utile al prossimo, di contribuire al dialogo tra le persone.

Poi ci sono giornate come questa. Dove la pubblicazione senza pietà della foto del corpo di un bambino senza vita in riva al mare ha scatenato il meglio e il peggio delle persone. E che oggi mi fa sentire stupida, io e il mio blog casereccio per pochi amici. Stupida e inutile. Io che pensavo che scrivendo avrei dato un po’ di me agli altri e che questo fosse una cosa buona. Oggi invece mi rendo conto che scrivo bene ma razzolo male. Che non sono che una dei tanti che parla, parla, parla e che non fa una cippa. Non sarà una foto così drammatica e crudele a cambiare il mondo, non sarà di certo il mio stupido blog a renderlo migliore.

Io e la mia tastiera, io e il mio lavoro, io e la mia casa. Io salva e al sicuro non per merito ma per caso, nata dalla parte giusta del mediterraneo, con il cuore lacero ma del tutto inerme. Impacciata di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia. Goffa come quando mi fermo a chiacchierare con le donne rom che ogni tanto incontro nella via dietro casa, ma che poi non so gestire quando cominciano a farmi richieste di tutti i tipi. Inadeguata come quando parte la solita discussione con chi vorrebbe rimandare tutti gli africani a casa propria ma capisco che io per prima non so nemmeno dove sia la loro casa: Eritrea? Niger? Mali? Se mi dessero una cartina muta dell’Africa non saprei collocarli con esattezza… Uno un po’ a destra, uno un po’ a sinistra, uno un po’ più al centro…

Ipocrita, come quando arriva l’estratto conto e il vedere il prelievo mensile destinato a Save the Chirldren ormai da anni mi fa sentire come una che in fondo sta facendo la sua parte, “prima che andasse di moda”…

Alcuni oggi hanno detto che una foto può avere il potere di smuovere le coscienze. Boh… Forse è vero, ma poi che succede? La mia coscienza è in subbuglio ormai da molto tempo anche senza foto eppure tutto quello che sono riuscita a fare è stato solo scrivere. Perché scrivere mi da sollievo. Ma a me. Solo a me.

Poi però penso che grazie a Dio conosco gente che non se ne sta seduta a guardare, che si è alzata ed è partita, si è rimboccata le maniche e si è data da fare. Io non so se lo farò mai, se mai ne avrò il coraggio, ma sono felice che loro lo facciano e sono felice di conoscerle. Io so solo scrivere, di me. Nel chiuso del mio divano.

Ma forse potrei partire da qui.