Nel chiuso del mio divano

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Quando ho cominciato a scrivere questo blog otto mesi fa, l’ho fatto perché ne avevo bisogno.

Io non so se è normale, se è così anche per gli altri, ma quando io sono sul tram, quando carico la lavatrice, quando guardo fuori dalla finestra o mentre sto guidando, nella mia testa i pensieri scorrono come se io li stessi scrivendo. Scelgo le parole, penso alla punteggiatura, all’intonazione.

Vorrei esistesse una macchina capace di trascrivere i miei pensieri direttamente sulla tastiera, perché quando poi mi metto a scrivere veramente, le mie dita sono più lente e non riescono a starci dietro e io mi perdo i pezzi.

Certe volte penso ai fatti miei, altre teorizzo sui problemi del mondo, altre ancora mi preparo frasi ad effetto da sfoderare in situazioni che temo e che mi mettono ansia ma che quasi mai poi si realizzano.

Da quando scrivo qui, ho scoperto che mi piace che altra gente legga i miei pensieri, mi gratifica sapere che a qualcuno piacciono, mi piace pensare al piccolo gruppo di persone che ogni volta che pubblico qualcosa si affaccia alla mia testa e ci sbircia dentro. Mi piace leggere altri blog, sbirciare nella testa di altri, scoprire analogie, differenze, sentire pareri diversi, vedere le cose da altre prospettive. Mi illudo che così facendo la mia testa si apra, mi sembra di fare qualcosa di utile al prossimo, di contribuire al dialogo tra le persone.

Poi ci sono giornate come questa. Dove la pubblicazione senza pietà della foto del corpo di un bambino senza vita in riva al mare ha scatenato il meglio e il peggio delle persone. E che oggi mi fa sentire stupida, io e il mio blog casereccio per pochi amici. Stupida e inutile. Io che pensavo che scrivendo avrei dato un po’ di me agli altri e che questo fosse una cosa buona. Oggi invece mi rendo conto che scrivo bene ma razzolo male. Che non sono che una dei tanti che parla, parla, parla e che non fa una cippa. Non sarà una foto così drammatica e crudele a cambiare il mondo, non sarà di certo il mio stupido blog a renderlo migliore.

Io e la mia tastiera, io e il mio lavoro, io e la mia casa. Io salva e al sicuro non per merito ma per caso, nata dalla parte giusta del mediterraneo, con il cuore lacero ma del tutto inerme. Impacciata di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia. Goffa come quando mi fermo a chiacchierare con le donne rom che ogni tanto incontro nella via dietro casa, ma che poi non so gestire quando cominciano a farmi richieste di tutti i tipi. Inadeguata come quando parte la solita discussione con chi vorrebbe rimandare tutti gli africani a casa propria ma capisco che io per prima non so nemmeno dove sia la loro casa: Eritrea? Niger? Mali? Se mi dessero una cartina muta dell’Africa non saprei collocarli con esattezza… Uno un po’ a destra, uno un po’ a sinistra, uno un po’ più al centro…

Ipocrita, come quando arriva l’estratto conto e il vedere il prelievo mensile destinato a Save the Chirldren ormai da anni mi fa sentire come una che in fondo sta facendo la sua parte, “prima che andasse di moda”…

Alcuni oggi hanno detto che una foto può avere il potere di smuovere le coscienze. Boh… Forse è vero, ma poi che succede? La mia coscienza è in subbuglio ormai da molto tempo anche senza foto eppure tutto quello che sono riuscita a fare è stato solo scrivere. Perché scrivere mi da sollievo. Ma a me. Solo a me.

Poi però penso che grazie a Dio conosco gente che non se ne sta seduta a guardare, che si è alzata ed è partita, si è rimboccata le maniche e si è data da fare. Io non so se lo farò mai, se mai ne avrò il coraggio, ma sono felice che loro lo facciano e sono felice di conoscerle. Io so solo scrivere, di me. Nel chiuso del mio divano.

Ma forse potrei partire da qui.

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