Il principio

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Io faccio parte di quella schiera di persone che quando legge un libro, non appena c’è un po’ di suspance, va a leggere la fine.

Sono tra quelli che prima di andare a vedere un film deve sapere se finisce bene o male, perché devo essere preparata. Io sono curiosa e ansiosa e le due cose insieme sono devastanti. Io devo sapere sempre come va a finire. Ed è per questo che io preferisco gli inizi.

C’è sempre un principio. Ogni catastrofe ha il suo inizio. Di solito sono piccoli segni, di solito sono indizi trascurabili. Non ci fai nemmeno caso.

Eppure è proprio lì che vorresti tornare quando ormai il danno è fatto, proprio lì, quando eri ancora in tempo per sistemare tutto. Un buchino si può riparare con un punto, un buco grande come un alluce ti fa buttare via la calza.

Riconoscere i segnali, i primi sintomi, sapersi fermare al momento giusto, farsi una risata quando ancora si è in tempo per poterci ridere su, prima che l’orgoglio abbia il sopravvento, prima che il rancore abbia il sopravvento, prima della paura.

Capire quando è il momento di non insistere, di fare un passo indietro, oppure capire quando bisogna farlo quel cavolo di passo.

Quante sofferenze in meno se si riconoscesse per tempo l’inizio del burrone.

Perché c’è sempre un principio.

La prima sigaretta, la prima parolaccia, il primo chilo in più sui fianchi, la prima alzata di spalle, la prima data non rispettata, la prima maglietta indossata non stirata. Il primo vaffanculo.

C’è sempre un principio.

Anche le cose belle hanno sempre un principio. Il primo sguardo, il primo bacio, il primo giorno di lavoro, il primo giorno di vacanza, il primo test di gravidanza, la prima pagina di un libro, la sigla iniziale di un film, la prima parola su un foglio.

E sono questi gli inizi che danno un senso a tutto quello che viene dopo. Ed è qui che bisognerebbe tornare quando lungo la strada l’entusiasmo si affievolisce, la stanchezza ha il sopravvento. Perché la nostalgia può essere dolce, può curare la ferite, riportare a quello che si era per ritrovarsi in quello che si è.

Vorrei avere cura di tutti gli inizi passati e vorrei essere abile a riconoscere tutti quelli nuovi. Perché c’è sempre un principio e comincio a pensare che di ogni cosa, sia bella sia brutta, sia proprio il principio la parte più preziosa.

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Mele e cannella

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Mi sono fatta una playlist con Spotify. Ci ho messo dentro un po’ di canzoni che mi piacciono e altre che mi hanno fatto compagnia negli anni.

Poi mi sono messa a fare una torta e mentre sono lì, che monto le uova e taglio le mele, due canzoni, “Anna e Marco” di Dalla e “Musica ribelle” di Finardi, mi riportano ai miei 16 anni. Queste erano due delle mie canzoni preferite.

Sarà stato che le protagoniste delle due canzoni si chiamavano Anna, sarà che erano due sfigate quanto me, ma il fatto che io adorassi queste due canzoni mi fa sorgere il dubbio che io a sedici anni dovessi essere di una simpatia proprio travolgente…

Mi ritorna in mente un pensiero frequente che avevo: immaginavo di sparire improvvisamente e immaginavo che nessuno se ne sarebbe rammaricato più di tanto. Mi convincevo che in fondo era meglio così, perché così avrei causato poco dolore. Insomma, pensieri di quelli da sbellicarsi dalle risate…

Mi piaceva così tanto andare nella mia scuola che ricordo che contavo i minuti che mancavano al suono della campanella di fine giornata. Li contavo sul serio: su un foglio scrivevo l’elenco di minuti dell’ultima ora e ogni minuto che passava ne cancellavo uno. Il pensiero che mi dava più consolazione era che in qualche modo io sarei uscita di lì, finanche morta ma sarei uscita di lì. Ringraziavo il cielo che l’istituto magistrale fosse di solo quattro anni, un anno abbonato rispetto agli altri licei.

Sono qui che aggiungo lievito alla farina e mescolo energicamente e penso quanto sono stata cretina. Che è proprio vero, che bisognerebbe avere 16 anni dopo i quaranta per apprezzarli. Che avrei dovuto spendere meno energie a compatirmi e molte di più a divertirmi, a studiare per il gusto di farlo, apprezzando il privilegio di poter imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, fottendomene del giudizio altrui, degli amori non corrisposti per giovanotti che sicuramente non valevano le mie pene.

E quando ormai sto versando tutto nella tortiera e sto disponendo le mele ho l’illuminazione: non è che adesso io sto qui a piangermi addosso e tra vent’anni mi ritroverò a scrivere quanto ero cretina a 45 anni a non godermi la vita, che avrei dovuto spendere molte meno energie a compatirmi e molte di più a divertirmi?

Mah… una spolverata di cannella e tutto va in forno.

La vita è bella, dovrei ricordamelo più spesso… Forse basterebbe fare le torte più spesso.

I’m Four Five Seconds from wildin’

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Ogni tanto mi capita di imbattermi in canzoni che mi piacciono così tanto che le potrei ascoltare venticinque volte di seguito.

Mi era successo con alcune canzoni di Pink! (Try e So what) e ora mi capita con Four Five Seconds di Rihanna, Kanye West e Paul McCartney. Mi rendo conto che non sia molto figo dichiarare così una mia predisposizione per il rock-pop commerciale anziché per musiche e cantanti più impegnati, ma tantè…

Comunque, il mio amore per Four Five Seconds credo che nasca da un’inquietudine che ultimamente mi prende e che non conoscevo più dagli anni dell’adolescenza. Sono sempre più convinta che dopo i quaranta inizi una seconda adolescenza. Le analogie sono, secondo me, tantissime: come l’adolescenza ti costringe a chiudere con gli anni fantastici dell’infanzia, tra i quaranta e i cinquanta ti ritrovi a dover chiudere un periodo della vita esaltante ed entusiasmante, quello durante il quale hai definito chi sei, ti sei costruito una famiglia, hai lavorato duramente per farti un’esperienza lavorativa, hai raggiunto gli obiettivi sognati a vent’anni, oppure hai imparato sulla tua pelle il significato di “compromesso”. Come nell’adolescenza, ti appresti a fare i conti con un corpo che cambia in un modo che non vuoi, in modo repentino e inaspettato. Come nell’adolescenza il futuro ti spaventa e la tentazione di fermare il tempo ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, qualche volta prende il sopravvento. E credo sia questo che crea l’inquietudine.

Ed eccoli qui, quei quattro cinque secondi di ferocia. La voglia di ribellarsi, quella sensazione di oppressione che ti fa venire voglia di urlare, di smetterla di essere buona, comprensiva, accomodante. E quindi cominci a dire tutto quelli che pensi, e cominci a pensare di aver ragione anche quando non ce l’hai. Cominci a pensare che meriti di più, che nessuno ti capisce, che sono tutti lì a rovinarti una giornata che per te sarebbe anche iniziata nel migliore dei modi. Ti da fastidio essere contraddetta, ti arrabbi perché nessuno fa come vorresti tu, ti sembra che tutti cospirino contro di te.

Ognuno reagisce come può a questa inquietudine. C’è chi ribalta tutta la sua vita, chi cambia lavoro, chi la casa, chi cerca un nuovo compagno, chi comincia a correre, chi inizia  a cantare, chi a dipingere, chi a scrivere.

Io ho avuto un’adolescenza orribile e qualcosa l’ho imparata. Per cui, mentre ascolto per la sesta volta Rihanna, ho deciso di fare così: aspetto che passi e arrivino i 50…

La maternità secondo me

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Sto cambiando. Me ne rendo conto ogni volta che vedo per strada una donna incinta. Una volta guardavo queste donne e avrei dato un braccio per poter essere come loro: quella pancia viva, il passo lento e sognante, lo sguardo sereno e aperto al futuro. Adesso se ne incrocio una per strada il primo sentimento è di “compassione”, nel senso letterale, cioè che soffro con lei. Penso alla fame che si alterna alla nausea, penso alla stitichezza, alle notti dai continui risvegli alla ricerca di una posizione compatibile con il sonno, penso al fiatone per ogni minima cosa, alla continua stanchezza, ai movimenti fatti lenti da un corpo appesantito da tutti i liquidi che improvvisamente scoprono la forza di gravità in virtù della quale trovano inconcepibile risalire dalle caviglie.

La stessa cosa mi succede quando vedo neonati in carrozzina o bambini sgambettanti in età prescolare. Sono splendidi ma io mi soffermo sempre di più sulle facce distrutte delle madri: l’occhiaia diminuisce in proporzione con l’aumentare dell’età dei figli. Le vedo in preda ad ansie che conosco bene, dilaniate tra il “si dovrebbe fare”, il “vorrei fare” e il “non ce la faccio”.

Ecco, io a tutte queste mamme vorrei rivelare un segreto: se vi si avvicina una qualsiasi donna che ha già figli grandi e vi sussurra all’orecchio “goditi tuo figlio ora che è l’età più bella” oppure se ne esce con “figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi”, ecco sappiate che queste donne hanno rimosso gran parte del loro passato, ne sono sicura.

Queste donne non si ricordano più la gioia profonda che hanno provato la prima volta che sono andate al supermercato e hanno tirato dritto davanti allo scaffale dei pannolini, o il gusto sadico con cui svegliano i figli adolescenti alle sette di mattina mettendo in atto una vendetta covata a lungo per i risvegli traumatici patiti all’urlo di “LATTE” alle 6 della domenica mattina. Queste donne vi stanno tacendo il senso di liberazione che produce la frase “vado a farmi una doccia” sebbene tutti i figli siano in casa, oppure “faccio una corsa al supermercato, non ammazzatevi”. Fino al tripudio di “vai al supermercato a comprarti il latte se vuoi fare colazione domani mattina”.

È vero, cominciano discussioni infinite, litigate furibonde, ma non sono peggio dell’avere un duenne in preda a una crisi isterica in mezzo alla strada perché vuole assolutamente le scarpe di Spiderman. È vero, vanno a letto più tardi la sera, ma non è un problema, visto che non ti impongono la visione di Peppa pig o della duecentesima replica di Biancaneve: tutti seduti sul divano si guarda XFactor o Pechino express, che alla fine, ammettilo, piacciono un sacco a te. In macchina puoi ascoltare le ultime novità discografiche con il risultato che ti senti giovane e non più in preda a una crisi di nervi all’ennesimo “il coccodrillo come fa”.

Tutto questo per dire una cosa: una volta le donne nascevano per fare le mamme, era scritto nel loro destino, non era una loro scelta, era inevitabile. Per cui c’erano mamme tremende e nessuno si scandalizzava, ma soprattutto nessuno si sentiva in colpa. Non si vedeva l’ora che i figli crescessero, che fossero in grado di aiutare la famiglia, che potessero essere mostrati con orgoglio come il frutto del proprio lavoro di genitori. Che spesso era svolto per mezzo di mazzate. Oggi invece diventare madri è sempre più considerato una scelta e quindi ci si aspetta che le neo-madri siano sempre perfette, amorevoli, pazienti. Hai voluto la biciletta? Zitta e muta, pedala e sii contenta. Poi però i figli crescono e oggi è socialmente tollerato che una madre si lamenti del figlio adolescente inquieto, che faccia ricadere su insegnanti scadenti, compagnie travianti e società malata le pecche dei figli. E quindi finalmente si possono smettere i panni della mamma bionica e ci si può lamentare dei propri figli, si può esprimere la propria frustrazione e la propria stanchezza. Della serie: si è vero il figlio l’ho voluto ma nessuno mi aveva detto che poteva uscire così, ma soprattutto non è colpa mia.

Io credo che ogni volta che sfiorerò un neonato e ne sentirò il profumo mi verrà sempre un po’ il magone, e continuerò a guardarmi la pancia dopo una doccia cercando di ricordare la sensazione che ho provato nel sentire un essere vivente che si muoveva dentro di me. Ma al contrario di quello che voleva insegnare certa retorica che sentivo da bambina, l’essere madre non è scritto nel destino di tutte le donne ma non è nemmeno una scelta: quante donne hanno avuto figli senza desiderarli, quante non li hanno avuti pur desiderandoli, quante li hanno avuti seguendo un puro istinto e quante hanno inseguito più l’idea astratta di avere un figlio che poco ha a che fare poi con il figlio in carne ed ossa che ti capita. La maternità è un privilegio tutto femminile, ma secondo me non è da intendersi solo nel senso letterale del termine. Si può essere madri in tanti modi. Ma soprattutto essere madre non è un super potere. È solo la possibilità di avere qualcuno che ti ama e ti odia con tutte le sue forze. E dai tredici anni in su, questo ai figli viene benissimo.

E mi spiace

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E mi spiace, mi spiace un sacco, ma io sono invidiosa.

Quando morirò mi ritroverò con un cilicio attaccata a una roccia aspettando in purgatorio che qualcuno preghi per me e mi faccia avanzare verso il paradiso. O almeno questo è quello che mi succederà se Dante aveva visto giusto.

Perché io sono invidiosa. Invidio le cosce toniche di quelle che corrono al parco, invidio la loro voglia di correre, il loro sudore, i loro leggings e le loro magliette.

Ma come tutti gli invidiosi, io invidio e mi fermo lì.

Invidio chi nella vita ha avuto una botta di culo che gli ha permesso di svoltare: “sai, è nato tutto per caso, camminavo per strada e un fotografo mi ha notata: adesso guadagno migliaia di euro per farmi fotografare”; “non ho mai pensato di fare l’attore, poi un giorno ho accompagnato un amico a un provino e hanno preso me”; “sì, è nato tutto per caso: ho scritto un articolo per il giornalino della parrocchia, la stessa frequentata dal famoso editore, che mi ha chiesto così di pubblicare un libro”; “mi è caduto un barattolo di vernice su una tela, ci sono inciampato sopra e adesso espongo al MOMA”; “al parchetto ho iniziato chiacchierare con una tizia che organizza incontri per mamme frustrate e adesso tengo conferenze ben retribuite sull’essere madre”.

Ecco, io non odio queste persone, io le invidio.

Perché è inutile, le botte di culo le hanno solo quelli che hanno talento, per gli altri, ahimè, è meglio se il culo se lo fanno da sé…

Il mestiere di fare i libri

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A me i libri piacciono. Mi piacciono un sacco. Eppure io non sono una grande lettrice. Non lo sono mai stata.

Il mio amore per i libri è più simile a quello che può avere un calzolaio per le scarpe, che è molto differente da quello che può avere uno stilista raffinato.

A me piacciono le copertine rigide, lo spessore della carta, i font. Anche se si tratta di un romanzo tutto bianco e nero. Mi piace la colla che tiene insieme le varie segnature, mi piace leggere i colophon, i “finito di stampare”.

Quando andavo a scuola mi piaceva ricoprire i miei libri con carte improbabili, mi piaceva sottolineare con matite colorate rigorosamente con il righello e farmi schemini a bordo pagina, più come fattore estetico che come reale strumento di studio.

I libri, un po’ per caso un po’ per volontà, sono diventati il mio lavoro, e anche se quelli che seguo io sono poco prestigiosi nel comune sentire, sono contenta che il caso, la sorte, gli incontri, mi abbiano portato a specializzarmi nella redazione di questi benedetti libri, ovvero i libri delle elementari a prezzo ministeriale. Mi è capitato spesso di andare in vacanza con le bozze e ormai sono abituata a chi, vedendo quelle pagine apparentemente così semplici, colorate, con poco testo, si chiede dove sia la difficoltà del mio lavoro. Non sono pochi quelli che mi danno consigli, insomma, quelli che ci mettono il becco, ma a me non dispiace, anzi. Mi piace coinvolgere la spiaggia alla ricerca di parole che iniziano con la sillaba VU o a inventare esercizi divertenti per racconti di 10 righe.

L’editoria scolastica è un mondo a parte, con le sue regole e le sue professionalità ben definite. Il mondo dell’editoria per la scuola primaria, a sua volta, è ancora più piccolo, ancora più specializzato, con delle regole tutte sue. Ed è una piccola comunità. Ci si conosce più o meno tutti, almeno di nome e di fama.

Io non so dove porterà l’acquisizione di Rcs da parte di Mondadori, non so se sarà un bene o un male. Forse non cambierà nulla o forse cambierà tutto. Ora gli occhi dei media e dei giornali sono puntati sui grandi autori, sui grandi marchi, ma nella vendita ci sono anche loro, tutte quelle persone che si occupano della scolastica. Io conosco chi fa i libri di primaria sia da una parte sia dall’altra, e intendo chi li fa veramente. Chi leggendo un file di word è già in grado di immaginarsi una pagina con disegni e foto, chi fa girare le bozze, chi con la biro rossa segna quello che va e non va, chi guardando un disegno cerca di capire se è quello giusto per i bambini, per le insegnanti e per i genitori. Chi cerca di capire, ad ogni cambio di governo, dove i vari ministri dell’istruzione con le loro riforme vogliono andare a parare e come tradurre le loro indicazioni, spesso nebulose e astratte, in pagine utili alle insegnanti, rassicuranti e chiare. Chi si siede accanto agli autori e li segue passo passo per tradurre e concretizzare idee bellissime, anche se qualche volta strampalate, facendole proprie ma riconoscendo sempre a loro, agli autori, il merito e le royalty.

Ecco, io non so se “Mondazzoli” sarà un successo, ma mi si stringe un po’ il cuore a vedere il lavoro di queste persone ridotto a merce, da chi guarda il profitto e non conosce la fatica, la passione e spesso la sofferenza che sta dietro a questi libri. Perché l’editoria in questi ultimi vent’anni è stata vessata, defraudata, abbandonata e sfruttata da leggi di mercato che poco hanno a che fare con la cura, la ricerca, l’innovazione. E nonostante questo i libri che escono sono ancora belli, sono ancora fatti da chi ci crede, da chi trova soddisfazione nel vedere l’ultima bozza e dare l’ok alla stampa. Da chi impreca contro le versioni digitali dei testi ma nonostante questo ce la mette tutta per imparare nuovi linguaggi, nuovi metodi di lavoro, nuove tecnologie.

Ecco, io spero che chi dovrà gestire questa unione nei mesi futuri abbia rispetto di queste persone, del loro lavoro e della loro esperienza. Da entrambe le parti. Perché se lo meritano.

Un panino alla Nutella

Sono nata e cresciuta in un quartiere alla periferia di Milano. Per 28 anni mi sono addormentata avendo come sottofondo il rumore delle macchine e dei camion della tangenziale, un rumore lontano e discreto ma incessante, costante, uno di quelli che se cominci a farci caso diventa fastidiosissimo e ti fa diventare pazzo.

Il quartiere dove sono cresciuta è rinchiuso tra tangenziale, ferrovia e aeroporto, un lembo di città costruito alla fine degli anni sessanta dove non manca il verde ma le case sono tutte uguali: stessa metratura, stessa disposizione. L’unica distinzione è quella tra chi sta nei tre locali e chi nei quattro. Nessuno ne ha solo due e nessuno ne ha cinque. Sono cresciuta tra stradine senza macchine che negli anni settanta erano stracolme di bambini della mia età e dove gli anziani erano rari.

Io dal quartiere dove sono cresciuta sono scappata.

Quando ho dovuto scegliere una casa per me, l’ho cercata “al di là della ferrovia”, verso il centro. Mi sono bastati un paio di chilometri. Volevo andare a vivere in un posto dove nessuno mi conoscesse, dove io non fossi “la figlia di”, “la sorella di”, “la nipote di”. La prima casa tutta “mia”, o meglio “nostra”, non aveva niente di regolare: non aveva l’ascensore, non aveva una pianta razionale, aveva un lungo corridoio e le stanze avevano la pianta trapeziodale. Al nostro numero civico c’erano ai piani alti attici bellissimi con terrazzi sui tetti di Milano, e ai piani bassi piccoli appartamenti abitati da persone anziane o nuclei allargati di famiglie dalle origini esotiche. Noi abitavamo a metà. Nonostante io abbia vissuto lì dieci anni, non ho mai conosciuto i nomi di tutti i condomini.

Poi però ci sono le sere dove si va tutti a cena dalla mia mamma, ovvero dalla nonna. Ritorno quindi per quelle strade dove ho imparato ad andare in bicicletta, ad andare sugli schettini, a guidare. Mentre in macchina i mie figli dietro di me chiacchierano, io rivedo la fermata dove ho passato ore della mia vita ad aspettare un autobus osservando e riconoscendo ogni singolo passante.

E mi rendo conto che per questa strada provo un sentimento contrastante di amore e odio. Mi rendo conto che non so chi siano le persone che adesso camminano lungo i marciapiedi e mi sento un po’ tradita, usurpata da chi è venuto dopo di me, ma allo steso tempo finalmente libera ed emancipata da questo quartiere.

So bene che quando sarò vecchia e rincoglionita e mi perderò per Milano, sarà qui che cercherò di tornare, saranno queste le case che cercherò di descrivere a chi vedendomi confusa e persa cercherà di aiutarmi chiedendomi “dove abiti?”. Ma so già che non le riconoscerò, perché già adesso non le riconosco più: non riconosco i negozi che negli anni sono cambiati, non riconosco i parcheggi, i dossi per limitare la velocità, i sensi unici. Non è più “casa mia”.

E con questi pensieri di un’allegria travolgente penso che questo post fa proprio cagare e che se non fosse tardi e se non avessi già lavato i denti, un panino alla Nutella ci starebbe proprio bene…