Venezia che muore

Partono, studiano, si innamorano, soffrono, lottano e non si arrendono. Vorrebbero poi però un giorno tornare e godere di quello che hanno conquistato. Perché l’Italia gli sta stretta, ma vorrebbero indossarla come un guanto quando la biologia fa venir voglia di radici e ci si stanca di sentirsi stranieri. Ma raramente ci riescono.

Sono belle persone, non solo cervelli in fuga. Sono più di un master, più di un dottorato. E sono così tanto italiani. E ci si sorprende quasi che questa Italia malandata, così ottusa, corrotta, mafiosa, provinciale, gretta, sia ancora capace di generare e formare anime belle.

Peccato sia stato un funerale a mostrarcelo.

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Ai miei amici

Sono consapevole che mi sto inoltrando in un ginepraio, ma ci sono momenti in cui non si può più far finta di niente.

Vorrei quindi ricordare a tutti i miei amici che in queste ore stanno postando sulle loro pagine Facebook immagini di Mussolini, che l’apologia del fascismo in Italia è reato, reato penale. E che, per usare le stesse parole che voi usate nei confronti degli stranieri, queste sono le leggi italiane, e che vi piaccia o no, le leggi italiane vanno rispettate. Perché nascono dalla storia dell’Italia ed è la storia che ci dice che Mussolini è stato un dittatore sanguinario e violento. Che non saranno le opere civili che lui ha fatto nel suo ventennio ad assolverlo, perché sono opere fatte e pagate al caro prezzo della vita di molti e della libertà di tutti, la libertà di poter pensare diversamente, di studiare, di far funzionare il proprio cervello.

Vi conosco da quando eravate bambini e so per certo che voi siete molto più intelligenti e sensibili delle cose atroci che pubblicate.

La libertà di cui voi ora godete non vi è giunta in eredità dal fascismo ma da chi il fascismo lo ha combattuto.

La libertà e la democrazia costano, costano parecchio. Si paga con la paura e il coraggio per sconfiggerla. Oggi si paga confrontandosi con chi la pensa diversamente, con chi ha una religione differente, con chi scappa da paesi in cui quello che è successo a Parigi l’altra notte, si vive ogni giorno. Quindi, vi prego, non siate codardi e non rifugiatevi in un passato che non avete vissuto e che evidentemente non avete capito.

Viviamo in tempi difficili, con nemici subdoli che proprio sulle vostre e sulle mie paure sta facendo leva per renderci deboli e vulnerabili. Vi rende pecore spaventate che pur di scappare sono disposte a seguire chiunque urli o abbai impedendovi di vedere il burrone verso cui vuole condurvi.

Parlate, ragionate, confrontatevi ma vi prego, riproporre il fascismo come soluzione dei problemi è semplicistico, anacronistico e profondamente stupido.

 

La paura

Alla radio ieri sera cercavano di esorcizzare i fatti di Parigi chiedendo ai radioascoltatori di raccontare le loro paure dopo tutto quello che è successo venerdì notte lassù, in Francia. Come in una grande seduta terapeutica di auto-aiuto le persone hanno cominciato a chiamare confessando, un po’ imbarazzati, la loro nuova paura nel prendere la metro o l’inquietudine che hanno cominciato a provare nell’incontrare facce di giovani dalla pelle scura in luoghi affollati. Io in macchina ho riso delle battute, ho parcheggiato e sono tornata a casa mia continuando a sorridere dell’idea avuta da quelli di Caterpillar (radio 2) per parlare di Parigi con leggerezza ma senza essere inopportuni. Sorridevo anche perché trovavo chi chiamava un po’ troppo ansioso… Insomma, io di paure o paurine non ne avevo.

Poi, stamattina, mentre sono lì nel cortile della scuola che aspetto che mio figlio entri dal portone con i suoi compagni, realizzo di trovarmi in un cortile affollato di mamme e bambini. E per un attimo il mio cervello mi fa pensare a dove potrei scappare con il mio bambino se improvvisamente dalla strada dovessero arrivare tre pazzi con un fucile in mano.

E per un attimo mi manca l’aria. Ma quel demente del mio cervello, anziché stopparsi lì, parte per un viaggio tutto suo nell’ansia. Penso al concerto di cui ho i biglietti da due mesi e penso che forse non ho più tutta questa voglia di andarci, penso che per gran parte della giornata noi cinque saremo in cinque posti differenti, penso al privilegio che ho di poter camminare per strada, andare in metro, al cinema, ai concerti, allo stadio come se fosse la cosa più normale del mondo e penso che non voglio rinunciarci.

Penso che la paura sia una brutta cosa, perché non fa ragionare, fa agire di impulso, mette in moto gli istinti animaleschi che abbiamo in fondo a noi stessi. E mentre penso a tutto questo mi ritrovo con mio figlio che mi guarda e che, anziché fiondarsi su per le scale come fa di solito urlandomi un “ciao” da lontano, stamattina indugia. E sorprendentemente non si sottrae al mio abbraccio e ai miei baci sulla sua testolina. O forse se li è presi volentieri anche in passato? Non lo so, non ricordo. Oggi però che la paura mi assale, tutto acquista un significato e anche questo suo indugiare mi mette angoscia, come se fosse un segno premonitore, un presentimento. Finalmente mi lascia ed entra, io mi avvio fuori da questo cortile e quando mi ritrovo sulla strada ricomincio a respirare.

Ed è a quel punto che ho fatto l’unica cosa possibile per uscire dal tunnel di angoscia in cui mi ero infilata, l’unico gesto di ribellione che potessi fare in quel momento per rivendicare la mia libertà.

Sono andata dal parrucchiere.

E tutto è tornato al suo posto. Anche se tutto a posto non è.

I genitori e perché non ho fatto la maestra

cropped-sedie-e-tavoli-bambini-1.jpgHo fatto le magistrali.

Il mio destino sarebbe stato quello di fare la maestra elementare. Probabilmente verso i quattro anni una volta mi hanno visto giocare alla maestra con i miei pupazzi e tutti si sono convinti che l’insegnamento era il mio desiderio e il mio destino. Ricordo di aver giocato anche al dottore, alla segretaria e al castello incantato, dove anziché essere la principessa ero la torturatrice di pupazzi. Giocavo molto da sola e la mia testa ogni giorno mi forniva scenari differenti dove io facevo cose mirabolanti o di una semplicità estrema, eppure, chissà perché tutti si convinsero che la mia passione era insegnare. Forse avere una madre e una nonna maestre ha fatto la sua parte… Boh… Comunque pian piano me ne convinsi anch’io finché non iniziai a insegnare veramente e, nonostante anche un concorso statale mi ritenne abile all’insegnamento, io capii ben presto che quella non era la mia strada. Per un semplice motivo: io i bambini non li sopporto.

Questo è il motivo per cui io nutro una stima sconfinata per tutte le insegnanti elementari, tutte, anche quelle oggettivamente incapaci. Secondo me è un lavoro logorante e che può essere svolto nel migliore dei modi solo da chi lo ha scelto veramente come ragione di vita. Tutte le altre, che temo siano la maggioranza, credo si siano ritrovate in un percorso simile al mio ma che alla fine non se la siano sentita di rinunciare a un impiego statale sicuro e, nonostante tutto, retribuito dignitosamente.

La scuola, dopo il mio “gran rifiuto” , è stata da me vissuta, e la sto tutt’ora vivendo, solo come genitore. E questo mi ha permesso in questi anni di non pentirmi mai della scelta che feci ormai vent’anni fa quando spedii al provveditorato di Milano un telegramma con su scritto “dichiaro di rinunciare all’immissione in ruolo”.

Non me ne sono mai pentita perché ho capito che non solo i bambini sono impegnativi e complessi, ma anche i loro cari genitori diventano una bella fetta di lavoro per le insegnanti. E i genitori sono complessi, molto complessi…

Alla luce di tutto questo, se mi è concesso, vorrei dare qualche consiglio alle insegnanti, cercare di spiegare loro qualche trucchetto per semplificarsi la vita.

– Finché non si parla dei loro figli, molti genitori sono persone ragionevoli, concrete, addirittura in qualche caso simpatiche e lungimiranti. Appena l’argomento diventa la loro prole, si assiste a una metamorfosi inquietante. Per cui, quando un genitore vi da vistosamente sui nervi, cercate di capire di più della sua storia, del suo lavoro, di quello che pensa. Lo so, costa fatica, ma se alla fine scoprirete dei punti in comune, potrete trovare una buona base per impostare una relazione positiva. Se poi scoprirete che questo invece è proprio un coglione, potrete farvene una ragione e il di lui figlio potrebbe diventare la vostra “sfida educativa” affinché il figlio non diventi come il genitore.

– Non strappate MAI i fogli di quaderno dei figli. Non so perché, ma per molti genitori questa è la cosa peggiore che voi possiate fare ai loro bambini. È successo anche ai miei figli e vi assicuro che è una cosa che fa scatenare la mamma tigre che è in ognuna di noi. Piuttosto chiedete di rifare tutto su un altro foglio e di incollarlo sopra, ma non strappate mai!

– Voi vedete un sacco di bambini: circa 23 ogni 5 anni. Per i genitori invece i figli sono uno o due, in alcuni casi tre, raramente sono quattro e soprattutto sono per tutta la vita. Questo fa sì che per ogni genitore il proprio figlio è unico e speciale e vorrebbe che anche le sue insegnanti lo considerassero tale. Se proprio un bambino vi sta sulle palle o lo considerate un idiota, almeno con i genitori fingete! Questo vi allevierà un sacco di grattacapi e tensioni.

– Per la maggior parte dei genitori le insegnanti sono degli esseri che vivono perennemente a scuola, che non devono pensare ad altro che al bene dei loro alunni, che non hanno una famiglia, dei problemi, dei pensieri. Non cercate comprensione o empatia dai genitori perché non l’avrete. In parole povere, se avete guai famigliari, la mamma che sta male, un divorzio in corso, un figlio adolescente che vi toglie la pelle dalle ossa, non raccontatelo ai genitori. Anziché avere sostegno, avrete sorrisi falsi davanti a voi e un gran spettegolare dietro alle spalle. Ma soprattutto comincerete ad essere messe sotto una lente d’ingrandimento, e tutto quello che farete verrà giudicato come malfatto perché avete “dei problemi”… Nel migliore dei casi sarete la “poverina”, ma non mi sembra comunque una buona cosa per la vostra autorevolezza.

– Sorridete sempre e qualsiasi critica e osservazione facciate non fate sentire mai i genitori sotto processo. Dire, o far percepire, a un genitore che non è capace di fare il suo lavoro, ottiene solo due conseguenze: o si incazza o si deprime e in nessuno dei due casi la cosa vi sarà d’aiuto. Per cui concentratevi sempre sul bene del bambino, iniziate sempre qualsiasi colloquio dicendo una cosa positiva del loro figliuolo: se siete delle brave insegnanti sapete bene che nessun bambino ha solo difetti, che tutti hanno un qualcosa di positivo da cui partire. E come ben sapete, nella maggior parte dei casi, il problema dei bambini è avere dei genitori coglioni. Ecco, consapevoli di questo, con i genitori parlate sempre di quello che il loro bambino ha di positivo e poi passate a illustrare come pensate di migliorare, come credete si possa fare per risolvere i problemi. Ma parlate sempre alla prima persona plurale “noi e voi potremmo fare così…”, “noi a scuola facciamo così, voi a casa potreste fare così…”. Un genitore pessimo non si sentirà sotto accusa, forse si sentirà monitorato e osservato, ma facente parte di una squadra. Lo so, deve essere difficile quando di fronte hai uno a cui metteresti volentieri due dita negli occhi, ma nessuno qui ha mai detto che fare l’insegnate sia semplice.

– I genitori hanno spesso una visione distorta dei loro figli. O meglio, i figli sono spesso molto diversi a scuola rispetto a come sono a casa. Lo devono capire i genitori ma dovete averlo ben chiaro anche voi: i ragazzini sono persone complesse e articolate e voi avete dei pezzi del puzzle che i genitori e non hanno, ma loro hanno altri pezzi che voi non avete.

– Le maestre non sono più considerate come una volta. Un tempo la “maestra” era un’istituzione, aveva sempre ragione a prescindere. Oggi, come ben sapete non è più così. È inutile arrabbiarsi, dire si “stava meglio quando si stava peggio”, è così e basta. Per cui tocca a voi conquistarvi la stima e la fiducia dei genitori, il che, lo so, non è semplice. Ho sentito criticare maestre dei miei figli che secondo me erano bravissime, per cui so bene che è praticamente una missione impossibile. Ma credo che almeno provarci possa essere utile: magari non vi conquisterete tutta la classe ma sarà sempre meglio che avere tutta la classe contro solo perché ad ogni incontro è evidente che per voi i genitori sono solo un problema.

È tutto.

Adesso credo sia chiaro a tutti perché ho scelto un lavoro precario e mal retribuito piuttosto che fare la maestra. Forse me ne dovrei ricordare anch’io più spesso e apprezzare di più ‘ste cavolo di bozze che mi stanno guardando… Almeno queste non parlano…

Di treni e di neuroni

SofaTrainFull

Ok, facciamo così.

Scendo un po’ dal treno e aspetto il prossimo, va bene?

No, sul serio, è tutto a posto, non c’è da preoccuparsi. È solo che ho finito la ram. I miei neuroni sono tutti occupati e dovrei fare spazio. Ho il cervello affollato e non ci sta più niente, per cui devo fare un po’ di pulizia.

Facciamo così, mi siedo un po’ sulla panchina, guardo i treni passare e affido ad ognuno di loro un pensiero ingombrante, così se lo porta via e io ritrovo spazio per le cose belle che devono ancora venire.

Primo treno: paura di morire. E bè, è il 2 novembre, viene da sé. Questo occupa un sacco di neuroni, porta via un sacco di energie. Facciamo che mi limito al pap test, alla mammografia, all’eco alla tiroide, all’esame delle feci. Giusto perché il medico mi ha detto che sono questi che potrebbero essermi utili. Magari cerco di mangiare sano, cerco di non fumare, magari cerco di camminare di più, ma basta così. Basta aver paura. Troppo faticoso.

Secondo treno: paura di sbagliare. “Chi non fa, non sbaglia”, per cui mi metto il cuore in pace: anche se sto super attenta prima o poi una cagata la faccio di sicuro. Ce ne faremo una ragione.

Terzo treno: voler piacere a tutti. Non c’è riuscita Merilin Monroe, vorrei riuscirci io? Ma per favore… Fatica sprecata. Non ne vale la pena.

Quarto treno: voler capire le ragioni di tutti. Ve bè, ho sempre pensato che fossero neuroni spesi bene, ma mi spiace, li sto finendo, e a qualcosa bisogna pur rinunciare… Facciamo così, se recupero molto spazio un po’ lo ridedico anche questo.

Quinto treno: far valere le mie ragioni. È giunto il momento di rassegnarsi: non ho più vent’anni e sono donna. Dovrei aver capito da mo’ che qualche volta accontentarsi non è una resa, ma una conquista. Le battaglie mantengono vivi, ma logorano. E le mie energie diventano ogni giorno sempre più preziose. Per cui è giunta l’ora di scegliere poche battaglie, ma che siano quelle veramente significative.

Sesto treno: essere bella. E va bè, ormai quel che è fatto è fatto. Direi che da adesso in poi è sufficiente tenere insieme i pezzi.

Ecco fatto. Adesso un po’ di spazio c’è.

Magari sto ancora un po’ qui, per essere sicura che tutti i treni si siano presi il loro bagaglio e che ci siano abbastanza neuroni liberi.

Ecco fatto. Posso ricominciare a respirare, posso riprendere il filo del discorso. E con un po’ di fortuna il mio cervello si riempirà da ora in poi solo di cose belle. Oppure, semplicemente, non mi succederà più di dimenticarmi di andare a prendere un figlio a basket.