Un anno di blog

cropped-cropped-img_03511.jpgOggi è il primo compleanno del mio blog.

Volevo ringraziarvi per essere stati con me.

Mi sono divertita, arrabbiata, inmalinconita. Ma inaspettatamente ho scoperto che un blog non è un parlare a senso unico. La fortuna dell’avere un piccolo blog è che io conosco la maggior parte delle persone che lo leggono, e questo ha fatto sì che le mie paturnie affidate alla rete siano state poi pretesto per chiacchierate con amici, occasione per conoscere amici di amici e si è rivelato uno strumento prezioso per ritrovare vecchi amici che non sentivo da tantissimo tempo.

Non tutto quello che ho scritto è piaciuto: sorprendentemente, almeno per me, hanno avuto “successo”, se così possiamo definirlo, post che a me non convincevano molto, mentre sono stati praticamente ignorati altri a cui io invece tenevo molto. Ho scoperto così che quello che esce dalla mia tastiera, una volta messo in rete, ha una vita tutta sua: può viaggiare molto, o rimanere tra pochi intimi. Letto da altre teste, con altri occhi, acquista nuovi significati oppure perde anche quello che forse aveva all’inizio.

Ho imparato molto in questo anno, ma la cosa che mi è piaciuta di più è ri-scoprire il potere consolatorio e liberatorio che la scrittura ha su di me. Credo che assomigli un po’ all’effetto che può avere per alcuni suonare uno strumento o dipingere o cantare. Non importa se viene bene o male, non importa se saranno apprezzate o meno le nostre performance, se riceveremo complimenti. Certo, se arrivano, ne saremo gratificati e ci renderanno orgogliosi di noi stessi, ma tutto parte da prima, dall’esigenza di buttare fuori qualcosa che preme, il bisogno di far uscire un po’ della vita che c’è dentro di noi e lasciarla andare per la sua strada.

Grazie quindi a tutti voi che siete passati almeno una volta da qui e vi siete seduti un pochino su uno dei miei divani. È stato per me un piacere.

Spero di rincontrarvi ancora su nuovi divani oppure… nella mia cucina con un bicchiere di prosecco in mano.

Grazie!

Buon anno!

Anna

 

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Elogio del prosecco

Tempo fa in consorte è tornato a casa con alcune bottiglie di prosecco. Era in offerta al supermercato e così ha pensato di prenderne qualche bottiglia nel caso venisse qualcuno a trovarci.

Ma visto che l’occasione non arrivava e che il terrore della vicina mi limitava nell’invitare amici per serate chiacchierine, una sera, mentre cucinavo, ho tirato fuori un calice dall’armadio in alto, quello dei bicchieri “belli”, ho preso delle patatine e l’ho stappato.

E mi si è aperto un mondo.

Ho sempre associato il vino alle serate in compagnia e non mi era mai successo di bere da sola, cosa che ritenevo alquanto triste.

Eppure, quella sera, stanca, di cattivo umore e con zero voglia di cucinare, ho scoperto che un bel bicchiere con del buon prosecco poteva essere un modo per festeggiarmi, per far sembrare speciale una serata normale.

Dopo quella serata ce ne sono state altre, molte condivise con il consorte.

Aprire una bottiglia, girare per la cucina con il bicchiere in mano mentre si apparecchia e si cucina regala una sensazione di festa, una voglia di chiacchierare che spesso mi manca alla fine di giornate dove sono sempre di corsa.

Perché rimanga intatta la sua magia, ho capito che non devo farlo troppo spesso. Non voglio che diventi un’abitudine, ma un regalo che mi concedo di tanto in tanto, per quando me lo merito o per quando non me lo merito per niente e proprio per questo ho bisogno di una carezza, di un piccolo momento di festa.

In questi giorni i prosecchi stappati sono stati tanti e altri mi aspettano. Questi sono ancora più belli, perché condivisi con le persone a cui voglio bene. Mi piace chiacchierare aspettando che la cena sia pronta, con persone che non hanno fretta, che si gustano con me il frizzantino, parlando di massimi sistemi o sparando cazzate ridendo di gusto.

I calici adesso li ho spostati in un posto più comodo.

Se passate da queste parti sappiate che anche se la casa è sottosopra, i bicchieri sono sempre pronti e la bottiglia è sempre in frigo.

Buon fine 2015.

I pensieri della lavatrice

cropped-big-04-outdoor-fat-sofa_outdoor-fat-sofa_04.jpgLa fine dell’anno si avvicina e con lei puntualmente arrivano i bilanci.

Se poi ti trovi come me in quell’età dove i bilanci vanno per la maggiore, ritrovarti a mettere sulla bilancia un po’ tutta la tua vita è un attimo.

Sì, perché più si va vanti, più gli anni passano sempre più velocemente e cominci a far fatica a valutare solo un singolo anno sfuggito via alla velocità della luce. E così è più facile ritrovarsi a ripensare un po’ a tutta la tua vita.

Pensi alle cose che hai fatto, alle persone che hai incontrato…

Fino a un po’ di tempo fa mi venivano sempre in mente le persone a cui avevo voluto bene, quelle che avevo detestato e quelle che avevo ferito. Mi facevo dei film mentali su come trovare il modo per farmi perdonare, su come riappacificarmi con loro. Pensavo che per cominciare un buon anno era necessario per me risolvere le questioni rimaste in sospeso, chiarirmi, chiedere scusa. Insomma ho sempre pensato che, sia nella ragione sia nel torto, toccava a me il primo passo, perché grazie a quel primo passo sarei stata meglio.

In linea di massima lo penso ancora, come sono sempre convinta che certe cose sia meglio non dirle, lasciarle nel profondo del subconscio, tenerle da parte per sogni e incubi notturni.

Eppure, ultimamente, mentre guido nella nebbia della tangenziale, mentre carico la lavatrice, scarico la lavastoviglie o stiro, mi tornano in mente improvvisamente episodi del mio passato che pensavo ormai di aver dimenticato. Sono come dei rigurgiti del subconscio, situazioni che mi hanno fatto per lo più soffrire ma che pensavo ormai morte e sepolte.

Probabilmente le cene prenatalizie con vecchie amiche e vecchi amici, hanno dato il colpo di grazia alla mia mente ormai provata da questa adolescenza tardiva.

Mi ritrovo a rileggere episodi accaduti quando andavano per la maggiore gli Wham e gli Europe in modo nuovo e mi ritrovo a pensare per la prima volta in vita mia che mi piacerebbe un sacco che qualcuno di questi spettri del passato mi chiedesse scusa. Perché anche se ormai è tutto passato e tutto è da parte mia perdonato, mi sorprendo a desiderare che chi mi ha fatto del male lo riconoscesse. Perché sono cresciuta con quel senso di colpa profondo generato dalla convinzione che gli altri si comportano con noi come noi permettiamo loro di comportarsi. E quindi era sempre, alla fin della fiera, colpa mia. Oggi so che questo è vero solo in parte, e che è altrettanto vero che la gente sa essere cattiva, che spesso è consapevole di esserlo e ferisce. E se lo so, è perché spesso lo sono stata anche io. Ed è proprio anche per questo che adesso sono abbastanza attrezzata per affrontare, gestire e anche comprendere la cattiveria altrui. So quando ho diritto a delle scuse e, anche se non le ricevo, so che mi spettano, so quando non sono io ad essere nel torto e quando non sono io quella che deve sentirsi in colpa. Ma è stata una conquista lenta e sofferta e ci sono stati anni in cui ero incapace di farlo.

Perché io ormai mi sono perdonata della mia idiozia di allora ma vorrei che qualcuno mi dicesse che non ero io quella sbagliata, che non ero noiosa, fastidiosa, o stupida, o brutta, o incapace come invece io pensavo di essere perché pensavo che questo era quello che gli altri pensavano di me.

Ora, io mi rendo conto che tutto questo rimurginare è abbastanza malsano, delirante, adolescenziale, e poco si confà ai miei 45 anni, tre figli e un lavoro, per cui mi chiedevo: visto che non posso fare a meno di guidare in tangenziale, se smetto di caricare lavatrici, scaricare lavastoviglie e stirare… passa?

 

Il tuo compleanno

E con la fine dell’anno è arrivato finalmente anche il tuo compleanno.

E sono 12.

E anche quest’anno eri via con gli scout. Ma quest’anno l’uscita era speciale: la tua prima uscita di squadriglia.

Sei stato fortunato, sei capitato in una squadriglia di ragazzi in gamba. Avete preso il vostro treno senza adulti appresso e siete andati in tenda, a dicembre. Vi siete organizzati e vi siete fatti da mangiare sul fuoco cena e pranzo. E mi sa che vi siete divertiti un sacco. Il tempo è stato dalla vostra e dalle foto che ho visto oggi qualcuno di voi era anche in maniche corte. E sei tornato felice, con i tuoi 12 anni freschi freschi e l’orgoglio di aver fatto le cose bene anche se potevano sembrare assurde e difficili.

Sei stato fortunato a trovare sulla tua strada dei ragazzi più grandi di te che hanno avuto il coraggio di osare, di farti vivere lo scoutismo, quello vero. Ti hanno fatto vedere che si può tutto se ci si crede e ci si dà da fare.

Stasera ti guardavo scartare i tuoi regali stanco e felice, come solo chi ha avuto una bella giornata può essere.

Il mio augurio per il tuo compleanno è che tu possa avere ancora tante giornate come questa. Che le giornate come questa possano sempre tornarti in mente quando penserai che qualcosa è troppo difficile, assurda, impossibile.

Sono grata al tuo caposquadriglia, e ai suoi quindici anni, per averti fatto un regalo così bello e prezioso e allo stesso tempo così semplice, un regalo che io non avrei potuto farti perché sono tua madre. Oggi il tuo caposquadriglia ti ha regalato l’essenza dello scoutismo: una tenda, un fuoco, un bosco, dei ragazzi liberi, profondamente liberi.

Noi non c’eravamo ma è stato bello aspettarti e vederti tornare più grande.

Tanti auguri.

Ti voglio bene.

L’essere che è dentro di me

Ogni tanto ho bisogno di fermarmi e ricordarmi di essere felice.
Perché più gli anni passano e più il tempo corre veloce.
Perché più gli anni passano e più essere felici diventa una scelta.

Non ho più gli ormoni dalla mia che mi amplificano le emozioni e che mi fanno sentire viva, ma so bene che cosa significa sentirsi vivi, perché l‘ho vissuto. Solo che adesso non avviene più automaticamente.

Perché vivere al cento per cento costa fatica e dopo un po’ la stanchezza arriva e quello che mi esaltava fino a qualche tempo fa, adesso mi fa solo sorridere.

Tutto quel subbuglio ogni tanto mi manca, ma da qualche parte dentro di me c’è ancora. Solo che viene fuori spesso nel modo sbagliato, nel momento sbagliato, con le persone sbagliate.

Mi rendo conto che le cose che un tempo mi prendevano fin nel profondo adesso rimangono in superfice e mi arrabbio, perché vorrei che fosse tutto come allora. Però so bene che se mi fermo un attimo e se ci metto un po’ di impegno sono ancora lì, intense come sempre.

L’ansia per un nuovo progetto, l’attesa di qualcosa di desiderato per tanto tempo, il piacere di una risata, di una chiacchierata, di una canzone, di un dolce al cioccolato, di un maglione nuovo, di uno sguardo di approvazione.

Sono fortunata perché ho tre esseri in giro per casa che invece vivono tutto ancora visceralmente, con forza. E se anche il mio compito è quello di aiutarli a imparare a gestire tutto quel groviglio di emozioni che ogni tanto prende il sopravvento, penso che faccia bene anche a me avere a che fare con loro perché ogni tanto riescono a risvegliare quell’essere fatto solo di emozioni che è ancora dentro di me. E i tre che girano per casa mia sono bravissimi a ridestarlo.

Forse dovrei spiegarlo anche ai vicini: le urla che sentono non sono io, è lui.

 

Mt 5, 1-16 (per chi sa che cos’è)

700 bambini morti in mare dall’inizio dell’anno.

E non c’è niente da aggiungere.

Anzi sì.

Perché un giorno la storia ci darà torto, come ha dato torto a tutti quelli che hanno assistito alle deportazioni senza fare e senza dire nulla.

Perché non si può rimanere in silenzio quando c’è gente che pubblica senza vergogna un crocefisso con sotto scritto “questa è la nostra tradizione, se non ti piace torna da dove sei venuto sul tuo barcone”. E sottolineo “pubblica” nel senso che rende pubblico su una piattaforma digitale un’immagine che non ho paura a definire blasfema e lo fa con arroganza e spavalderia, perché pubblicare qualcosa su Facebook è come appendere uno striscione dalla propria finestra di casa con quell’immagine e con quella scritta.

E mi chiedo di quale Gesù parlano, non certo di quello su quella croce.

Non certo di quello delle beatitudini, non quello che prometteva il regno dei cieli agli ultimi, agli affamati, agli stranieri.

Non certo di quello che metteva al primo posto gli affamati e gli assetati di giustizia.

Mi chiedo quale Vangelo ‘sta gente abbia mai letto. Mi chiedo che cosa pensa davanti alla croce quando urla che deve rimanere nelle classi delle scuole. Quando un crocefisso viene brandito con violenza, imposto con arroganza, usato per discriminare, per urlare, io sto male.

Io non sono una brava cattolica, non tutte le domeniche vado a messa, non mi confesso da anni, ma il Vangelo per me rimane il vero e unico libro che contiene il segreto della felicità. Quel crocefisso che ho contemplato tante volte rimane per me l’esempio dell’amore assoluto, del donarsi fino in fondo anche a chi non ci merita, anche a chi ci odia, anche chi ci vuole fregare, anche a chi ci vuole uccidere.

Ma come si fa, io mi chiedo, a dirsi cristiani e poi non vedere nel prossimo, chiunque esso sia, una persona. Non dico Dio, ma almeno una persona. Con che coraggio si sceglie solo il lato comodo della propria fede che ci perdona i nostri peccati e ci si dimentica che ci saranno rimessi come “noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Quando si pregano i salmi, canti bellissimi dalla forza struggente, è Dio la nostra forza, non Salvini davanti a una scuola con un presepe in mano che cerca voti e consensi.

Non lo so che ne sarà di noi. Io non so che cosa posso io mai fare nel mio piccolo. Io lo so che faccio poco se non addirittura niente.

Ma so anche che non voglio essere complice di queste bestemmie. Ed è per questo che stasera appendo il mio striscione dalla mia finestra digitale, perché non voglio che il mio essere cristiana cattolica diventi sinonimo di razzista, fascista, nazionalista. Perché il Vangelo è tutta un’altra storia.

 

 

A Milano in questi giorni c’è la nebbia

cropped-w160-s_thunder-pewter_hs.jpgA Milano in questi giorni c’è la nebbia.

Come credo anche a moltissimi milanesi, a me la nebbia piace.

Mi ricorda quando da ragazzina aspettavo alle sette e mezza di mattina il tram in via Mecenate e non si vedeva niente e improvvisamente ti appariva in tutta la sua grandezza annunciato dal fanale che dovevi sforzare gli occhi per vedere la sua luce in lontananza. E quando finalmente la vedevi distintamente, il tram era già lì, quasi di fronte a te.

Mi piace la nebbia perché può essere lieve ma allo stesso tempo così densa e fitta da sembrarti pesante.

Un po’ come queste giornate strane di inizio dicembre.

Da 18 anni dicembre per me significa lavoro, ansia, paura di non farcela, nervosismo. Perché a dicembre si inizia a mandare in stampa i libri e i ritmi di lavoro si fanno serrati. Da 18 anni non aspetto il Natale con l’ansia di aprire i regali, ma l’ansia di non fare in tempo a consegnare gli ultimi giri di bozze.

Eppure quest’anno è diverso. Gli eventi accaduti nelle ultime settimane nel mondo ci hanno costretto a fare i conti con storie che fino a poco tempo fa ignoravamo, che volevamo ignorare e di cui non vorremmo occuparci nemmeno ora. Ma che invece ci riguardano, eccome, e ci costringono a mostrarci per quello che siamo realmente e spesso quello che ne viene fuori non è un bello spettacolo da vedere allo specchio. Sarà per tutto questo, ma la nebbia di questi giorni mi pesa, mi pesa un sacco. Eppure mentre guido in tangenziale avvolta in questa nube densa, stranamente mi sento al sicuro, come se la nebbia di Milano potesse proteggermi.

Sarà che quest’anno ho scelto di lavorare meno, sarà che faccio finalmente la vera freelance che lavora da casa lasciando ad altri dinamiche aziendali che non mi appartengono, sarà che quest’anno dalle quattro in poi sono costretta a fare la mamma, sarà per tutto questo, ma io mi sorprendo a pensare allo stesso tempo che questa nebbia quest’anno mi sembra molto leggera perché mi fa pensare al mio lavoro come una piccola cosa straordinaria nella sua normalità. Le fatiche, le incomprensioni, le ansie, le incazzature quest’anno non mi pervadono visceralmente come in passato. Ci sono, ci sono sempre, ma arrivano e se ne vanno. Come se questa nebbia mi ponesse alla giusta distanza.

La nebbia di Milano, così pesante e così leggera, così milanese.

E sono sempre qui in macchina, in coda, la radio che parla e la mia testa scrive e corregge. Ma la radio parla. E mi dice cha la mia macchina diesel euro 3 molto probabilmente da lunedì non potrà più girare.

E tutta la poesia su ‘sta cazzo di nebbia crolla perché, diciamocelo, questa non è nebbia… questo è smog.