La “festa” della donna l’8 marzo è un ossimoro.
Come si può chiamare “festa” un giorno che ricorda un massacro, una tragedia?
È come se l’11 settembre diventasse la “festa” dell’impiegato americano.
L’8 marzo avrebbe più senso per me se fosse una giornata di commemorazione. Commemorazione di tutte quelle donne che ogni giorno nel mondo muoiono.
In ginocchio, velate, uccise da pietre. O nella cucina di casa propria dal marito appena rientrato dall’ufficio. O in una terra arida partorendo. O di malattia in qualche bordello asiatico. O su un barcone. O in un campo di pomodori. O in un campo profughi.
Non mi piacciono le mimose, non mi piacciono le cene di “donne” per festeggiare, non mi piacciono i gestori di locali che organizzano serate speciali.
Eppure non riesco a giudicare male tutte quelle che invece festeggiano, perché la vita ha bisogno anche di feste. Perché vedere tante donne che festeggiano è per me sempre bello.
E mi dispiace che questa festa stia perdendo di significato anche a causa di chi come me l’ha sempre un po’ snobbata.
Passati gli anni caldi del femminismo, che io non ho vissuto, è diventata sempre più una festa commerciale per coatte, o, al contrario, per femministe nostalgiche degli anni settanta che per l’occasione evitano la ceretta e il reggiseno.
Le donne normali, quelle da casa-ufficio-scuola-palestra, a me sembra che abbiano cominciato a evitarla. Lo capisco dal numero sempre maggiore di poveretti che ai semafori cercano di rifilarti la mimosa che nessuno ormai compra più.
I mazzetti rinchiusi in quella carta argentata preconfezionata rendono quei fiorellini gialli così tristi e stropicciati che non fanno altro che ricordarmi come essere donne sia spesso così faticoso.
E mi chiedo quindi se non hanno ragione poi loro, le coatte, quelle per una sera mandano mariti e figli a quel paese e si buttano in balli sguaiati, ridendo e ballando come si vergognerebbero in qualsiasi altro giorno dell’anno.
Perché forse c’è ancora bisogno di un giorno di “festa”, per ricordare quello che siamo state, quello che siamo e quello che potremmo essere. Perché sono sempre in molti e in molte a dirci come “dovremmo” essere, come se l’essere “donne” bastasse a renderci tutte uguali, come se ci fosse un solo modo di essere donna.
Quindi il mio augurio per domani è che possiate essere felici con il tacco 12 o con gli anfibi, con il trucco perfetto o spettinate, magre, grasse, sportive, ciabattanti, sguaiate o educate. Single, zitelle, sposate, divorziate, compagne, madri, padrone di cani, gatti o conigli. Pigre, iperattive, amanti di Tarkovsky o di Maria DeFilippi. Attente e precise o confusionarie e distratte. Con la biancheria ricamata e coordinata, o con le mutande Cotonella bianche e il reggiseno nero dell’Esselunga. Amanti dell’ordine della casa o della musica o dei libri o della corsa o di Eros Ramazzotti. Felici mentre fate il vostro corso di Pilates o cucinate o guidate o andate in bicicletta o discutete in un circolo o in un consiglio comunale.
Il mio augurio è che ognuna possa essere quello che vuole, a modo suo. Per se stessa e per tutte quelle che non possono esserlo.
Libere. Tutte.
Eros Ramazzati?!?
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ops! ah ah…. correggo subito! sto robo corregge da solo ogni tanto e non me ne accorgo!
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