46

E va bene, sono 46.

Come è successo? Non lo so, non lo so proprio…

Io me ne sento a mala pena 36…

Come hanno potuto passare tutti questi anni così in fretta?

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. I capelli, la faccia, la pancia, le cosce… no, non sono io.

Rivoglio indietro quel senso di immortalità che avevo, rivoglio i miei capelli, il loro colore uniforme, la mia pancia che si perdeva tra le anche, rivoglio poter entrare in una 44. Vorrei che sparisse la cellulite molliccia e bitorzoluta dalle mie cosce, la ragnatela di venuzze che la ornano. Rivoglio la pelle liscia della faccia… bè… quella forse non l’ho mai avuta.

Rivoglio quella sensazione di avere tutta la vita davanti, di avere ancora tutto da costruire.

Voglio imparare ancora le canzoni a memoria, voglio poter leggere da vicino e guardare lontano senza dover cambiare occhiali. Vorrei ancora riuscire a lavorare per ore concentrata senza accorgermi del tempo che passa.

Vorrei essere bella.

Eppure è proprio questo corpo, questo dannato corpo che io detesto ogni giorno di più, quello che mi ha sostenuta e accompagnata in questi miei 46 anni. C’era lui quando mi sbucciavo le ginocchia in cortile, c’era lui a portare lo zaino in montagna, c’era lui a tentare di nuotare in mare anche se con scarsi risultati, lui a darmi brividi di piacere o di paura, lui ad allargarsi e a restringersi a ogni gravidanza. C’era lui in sala parto.

Dovrei essere grata a questo mio povero corpo, anche se non è come quello delle 46enni che vedo sulle riviste e nemmeno come quello di certe signore che ho visto al mare: ma come fanno, io dico, a non avere la cellulite? Hanno facce che non mentono, la pelle un po’ cadente, ma porca miseria, hanno gambette magroline senza nemmeno uno gnocchettino…

Dovrei trattarlo meglio ‘sto corpo, prendermi un po’ più cura di lui perché so bene quello che lo aspetta nei prossimi anni. Dovrei apprezzarlo di più, anche se non è bello, anche se mostra impietosamente i segni dell’età.

Oggi io e lui compiamo 46 anni.

E dobbiamo festeggiare. Festeggiare i mille abbracci, i mille baci, le mille carezze, le mille risate, i mille pianti. Perché anche se io e lui non siamo mai stati molto amanti dei contatti fisici, sono stati proprio gli abbracci, i baci, le carezze i regali più belli che abbiamo ricevuto in questi anni. Grazie a lui ho vissuto momenti bellissimi, ho conosciuto il mondo, le persone, i baci desiderati, il contatto con l’erba, la sabbia, le mani, gli sguardi.

Quindi auguri a me e a lui. Legati indissolubilmente.

E fanculo la prova costume.

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Buonista un cazzo

In questi giorni ha fatto la sua apparizione una campagna organizzata non so bene da chi, che mostra alcuni bambini siriani con un cartello in mano che invita noi occidentali a cercar loro piuttosto che i Pokémon. Sono bambini forse originari delle città Siriane che in questi giorni vengono bombardate e che sono ormai allo stremo per mancanza di rifornimenti. Sono città dove i bambini muoiono.

La campagna è ad affetto, soprattutto per una come me, che Pokémon go se lo è già scaricato e ogni tanto prova a giocarci anche se non ho ancora ben capito come funziona. Ho visto quei cartelli e ho pensato “che cazzata: io i Pokémon li trovo camminando per strada, il bambino siriano come cavolo faccio ad andarmelo a prendere?”.

Ma quel cartello mi è rimasto in mente, e adesso agni volta che cerco un Pokémon mi sento un po’ in colpa.

È un po’ come quando da bambina non volevo mangiare nulla e mia nonna mi diceva “pensa a chi non ha niente da mangiare, pensa ai bambini in Africa che muoiono di fame”.

Oggi a nessun genitore verrebbe mai in mente di dire a un bambino di mangiare quello che non gli pace pensando a chi non ne ha, innanzi tutto perché il bambino ti risponderebbe “non dir cazzate” e poi perché manuali di psicologia infantile ci hanno insegnato che instilleremmo nel bambino un senso di colpa sbagliato, dal momento che lui non c’entra nulla con la fame nel mondo, e poi perché in realtà spesso oggi il problema è farli mangiare di meno ‘sti benedetti figli.

Pensandoci bene, credo che ci sia una netta differenza tra quello che mi sentivo dire io quando ero piccola e quello che si sentono dire i mei figli ogni giorno.

Io sono cresciuta nella convinzione di essere una privilegiata. Il fatto di poter studiare, di avere una casa, di poter fare le vacanze, di poter viaggiare, erano percepiti da me come qualcosa che avevo ricevuto immeritatamente e che era mio dovere fare sempre del mio meglio per onorare questo privilegio.

Nella mia ingenuità infantile ho sempre pensato di venire da una famiglia “benestante”, fino a quando all’università ho conosciuto i veri “benestanti” e mi sono resa conto della reale posizione sociale in cui ero collocata.

Per i miei figli è diverso. Sono immersi in una società dove si sentono continuamente ripetere che c’è qualcuno che gli sta portando via quello a cui loro avrebbero diritto. Non avranno la pensione, non avranno un lavoro sicuro, non sono nemmeno sicuri di entrare all’università, che comunque non è più quella di una volta. È sempre colpa di qualcuno, dei politici, dei professori, della scuola che non funziona, della sanità malata.

Tutto sembra essere dovuto e la responsabilità di tutto quello che non va è sempre di qualcun altro. E noi genitori spesso siamo i primi a sostenere questo, cercando spasmodicamente la scuola migliore, preoccupandoci dei professori che avranno, degli amici che frequentano, i corsi, gli sport. I nostri figli hanno diritto al meglio.

E poi arrivano ‘sti benedetti bambini con ‘sto cavolo di cartello con il Pokèmon.

Comincio sempre più a credere che pensare ai bambini in Africa quando non volevo mangiare mi abbia fatto bene, nonostante l’assurdità della frase.

Credo che essere cresciuta con un po’ di sensi di colpa non mi abbia fatto male.

Credo mi abbia insegnato ad apprezzare quello che ho e a tenere il cuore un po’ più aperto.

In una settimana è successo di tutto, temo che ci aspettino ancora giorni difficili e so già che mantenere il cuore aperto sarà complicato. Non posso andare in Siria a prendermi i bambini, non posso cambiare il mondo, non posso prendere un barcone e andare per il mediterraneo a salvare solo i buoni e lasciare i cattivi annegare, non posso prendere quelli che si stanno preparando a farsi saltare e portarli al mare a fare una nuotata.

Come tutti ormai anche io sull’autobus, in metro, al supermercato guardo con diffidenza chi ha tratti somatici diversi dai miei. Le donne velate continuano ad essere un enigma per me e a mettermi a disagio, perché io proprio non le capisco.

Ma voglio essere ancora aperta e accogliente, voglio continuare a sentirmi una privilegiata e voglio fare del mio meglio per condividere questo privilegio aprendomi al mondo senza diffidenza e senza paura. Voglio continuare nel mio piccolo a non rendermi complice della costruzione di muri, voglio continuare a sostenere chi si prodiga per la pace e i diritti di tutti.

Voglio continuare a credere che tutti gli esseri umani hanno diritto alla pace e alla felicità.
Voglio continuare a sentirmi inquieta difronte a dei bambini che muoiono, non solo se questo avviene in Francia o in Germania, ma anche in Siria, in Afganistan, in Iraq.
Voglio continuare a sentirmi responsabile di quello che succede nel mondo.

Lo so che dicendo questo rientro nella categoria dei “buonisti”, e questa cosa un po’ mi fa incazzare, perché sono stufa del cinismo che c’è, delle soluzioni facili “tutti a casa” perché non vogliono dire niente, perché non sono soluzioni. Cominciassimo a capire chi abbiamo come vicino di casa, cominciassimo a parlarci, cominciassimo a conoscerci, forse sarebbe più semplice isolare e individuare i “cattivi” e magari toglieremmo un po’ di facile manovalanza a chi vuole diffondere paura e terrore.

Perché io non voglio aver paura.

Buonista un cazzo.

Io a Genova nel 2001 non ci andai

Io a Genova nel 2001 non ci andai.

I mesi precedenti per me erano stati difficili e avevo la testa altrove.
Però seguii la manifestazione in tv da casa, vidi le cariche e i politici seduti in poltrona a commentare. Ricordo Vittorio Agnoletto davanti alla Diaz che urlava e si disperava, ricordo Giovanna Botteri che mentre faceva la telecronaca della manifestazione si trovò a descrivere le cariche della polizia. Le sfuggì un “non capisco perché stiano caricando, la marcia è pacifica e colorata”.
Poi iniziarono le telefonate. Ero responsabile degli scout dell’Agesci per la zona Milano e molti capi e ragazzi erano là. Cominciarono ad arrivare le chiamate di gente che era scappata per le strade e sulle colline intorno alla città. Erano confusi, increduli.

Qualche giorno dopo ci fu una manifestazione a Milano.

E lì ci andai, ci andammo tutti. Più che una manifestazione mi sembrò un raduno di auto aiuto per gente scioccata che non riusciva a capire come avesse potuto succedere tutto questo. Sembravano dei sopravvissuti che vagavano alla ricerca di risposte. Erano appartenenti ad associazioni di volontariato e della società civile. Erano ragazzi, famiglie, persone anziane. Tutti con la stessa faccia.
Ricordo che c’erano gli agenti in tenuta antisommossa nelle vie secondarie del centro, c’erano le camionette. Rimasero defilati, tranquilli, ma facevano impressione perché erano in totale contrapposizione con i racconti che sentivo da quelle persone sedute per terra accanto a me e che non avevano nemmeno la forza di urlare slogan.

Ci si diceva che non poteva finire così, che avremmo dovuto fare qualcosa. Si raccoglievano idee, cominciarono ad arrivarmi proposte, suggerimenti, alcuni mi supplicarono di fare qualcosa come Agesci Milano.

Ma agosto era alle porte e decidemmo di riparlarne a settembre, a mente libera, tenendo d’occhio gli sviluppi.

Settembre arrivò, e con lui l’11 settembre 2001. E tutto cambiò.

Quella fine di luglio 2001 è rimasta nella mia mente come l’estate che mi ha rivelato quanto io possa essere pavida. Provo sempre un certo malessere a ripensare come io non abbia avuto la forza e il coraggio per fare qualcosa almeno di simbolico che il mio ruolo avrebbe potuto permettermi di fare.

Ancora oggi faccio fatica a leggere gli articoli e a vedere i filmati che mostrano senza ombra di dubbio come sono andate veramente le cose. Perché mi fa rabbia chi ancora parla di “sovversivi”, di “black bloc”, ancora pervaso da quelle versioni ufficiali che uscirono a ridosso degli eventi e che sono state smentite e smontate una per una.

I responsabili non sono mai stati condannati e l’anno prossimo, da quel che ho letto, i loro reati andranno in prescrizione. A differenza di molti ragazzi che invece in carcere ci finirono subito, dopo essere stati picchiati, umiliati e torturati. Nessuno dei politici seduto sulle poltroncine in quei pomeriggi di sole genovese davanti a una telecamera ha dovuto rendere conto delle proprie scelte e del proprio ruolo in tutto quello che successe.

Il 20 e il 21 luglio, dal 2001, sono per me giornate di malessere e ogni volta che passo davanti all’uscita dell’autostrada Bolzaneto mi viene sempre un piccolo brivido…

Fino a qui tutto bene

E poi Nizza.

Altri nastri a lutto, altri pray for…, altri Je suis…

E questo senso di stanchezza, di rabbia, di impotenza, di paura.

È una guerra nuova, senza confini, senza campi di battaglia, senza soldati, senza divise, senza prime linee e con nuove armi. Armi potentissime: esseri umani.

Le armi efficienti sono poveri disgraziati che non hanno nulla da perdere. Vai a leggere le loro storie e sono sempre povere storie, che parlano di immigrazione, di emarginazione, di rabbia, di voglia di vendetta. Questi piccoli esseri umani sono esseri insoddisfatti, poveri o ricchi che siano, per i quali la loro vita in primis non ha nessun valore, figuriamoci quella degli altri.

Io mi chiedo, quanto può essere misera e priva di bellezza la vita di un uomo per scegliere di trasformarsi volontariamente in un’arma di distruzione di massa? Come si possono disinnescare queste bombe con le gambe che camminano invisibili nelle strade di tutto il mondo?

“Non esiste pace senza giustizia” e questo credo sia il grosso problema della nostra epoca.

E mi spiace, ma non sarà alzando barriere, non sarà alimentando l’odio e la diffidenza che si neutralizzeranno questi poveri esseri umani. Perché sono già qui, perché ci siedono accanto sull’autobus, perché sono sparsi per il mondo come piccole mine antiuomo pronte a saltare. Attaccate a un sito internet a drogarsi di esaltazione.

E chissà perché mi viene in mente un episodio di tanti anni fa. Ero su un autobus, di notte, tornavo a casa e non ero tranquilla. A un certo punto salgono dei ragazzini e cominciano a fare battute nei miei confronti sempre più pesanti e si avvicinano sempre di più. Io comincio ad avere veramente paura, quando, mentre scherzano tra loro, sento chiamare per nome uno dei ragazzini. E riconosco quel nome e quel ragazzino. Avevo fatto la supplente in classe sua quando lui era un bimbetto di sette anni. Mi faccio coraggio, sfodero il miglior sorriso che la paura mi permette di fare e chiedo “ma tu sei … del campo di via…?” Lui mi guarda ci pensa un po’ su e poi scoppia a ridere. E mi dice: “A mae’, non t’avevo riconosciuta!” Alla fine mi ha presentato gli amici e ci siamo raccontati come stavamo. Quando è arrivata la mia fermata sono scesi anche loro e mi hanno accompagnato un pezzettino, perché “maè, di notte è pericoloso…”.

Ecco, io vorrei che bastasse così poco per neutralizzare queste nuove armi. Vorrei ci fosse qualcuno che li potesse chiamare per nome questi esseri infelici, che riuscisse a sorridergli nonostante la paura e potesse così disinnescare la miccia pronta a saltare. Vorrei che qualcuno riuscisse a farli ridere, a fargli pensare alle cose belle che hanno, che li aiutasse a incanalare la propria frustrazione in una lotta pacifica per ottenere giustizia, in un modo che anche loro un giorno possano beneficiarne.

Ma mi viene anche in mente l’ultima scena del film “L’odio”: “È la storia di una socità che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio: “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Il problema non è la caduta ma l’atterraggio”.

Pensieri di luglio, 1992

Quando il 19 luglio 1992 al campo degli scout arrivò la notizia dell’assassinio di Paolo Borsellino, un ragazzino con l’ingenuità e l’ignoranza dei suoi 14 anni esordì con un inquietante “e chissenefrega, che si ammazzino tra di loro ‘sti siciliani mafiosi”. Era l’anno di mani pulite, del crollo dei partiti della prima repubblica, dell’ascesa di Bossi e del suo “membro” duro, del “Roma ladrona”, dell’esaltazione dell’efficienza lombarda e l’invocazione della scissione della Padania dal resto d’Italia. I nemici erano i terroni che venivano al nord a rubarci il lavoro, dei romani che rubavano e sperperavano i soldi delle nostre tasse, dei siciliani tutti mafiosi. Dall’alto dei suoi 14 anni, ‘sto ragazzino magrolino non aveva capito niente, si era lasciato convincere da un urlatore di piazza che gli indicava un nemico facile da individuare. Non aveva avuto il tempo, la voglia, gli strumenti e la curiosità per capire che cosa stesse succedendo veramente. L’urlatore di piazza parlava chiaro, conciso, semplice: nord lavoratori buoni e onesti, sud scansafatiche mafiosi. E lui, con poca voglia di studiare, di conoscere, di far funzionare nel senso giusto quella sua intelligenza che comunque aveva, non aveva gli strumenti per capire e infatti non aveva capito niente.

Quell’estate fu anche la prima della guerra in Bosnia. Facevamo il bagno sull’adriatico senza capire bene cosa succedesse dall’altra parte, chi fossero i buoni e chi i cattivi, solo rammaricandoci di non poter andare in Jugoslavia a fare le vacanze in posti belli ed economici. Negi anni a venire avremmo cominciato a sentir parlare di musulmani, serbi, bosniaci, croati, genocidi, pulizia etnica… Ma, siamo sinceri, pochi di noi hanno ben chiaro anche adesso che cosa successe, chi furono le vittime e chi i carnefici. Insomma, se vi chiedessero a bruciapelo se i serbi erano buoni o cattivi e se erano musulmani o no, quanti di voi saprebbero rispondere? E i bosniaci?

Sono passati 24 anni. Il quattordicenne di allora ha già due figli ormai grandini, si va in vacanza in Croazia perché il mare è sempre bello anche se non è più economica come una volta, l’urlatore si è ritirato a vita privata dopo alcuni scandali ed è stato sostituito prontamente da un altro predicatore. Che però non se la prende più con Roma ladrona, i siciliani mafiosi e i terroni. Anzi. In 24 anni i confini sono stati allargati. I nemici invasori parassiti delle nostre ricchezze e minaccia del nostro benessere non sono più meridionali arrivati al nord alla ricerca di fortuna e lavoro. Ora i nemici sono gli stranieri provenienti da Africa e Asia. Non si invoca più l’indipendenza della Padania, ma si chiede la scissione dell’Italia dall’Europa. Peccato solo avere tutte ste cavolo di coste, non si può mica erigere un muro come fanno gli altri, quelli che “sì che sanno come si fa”… I toni però sono gli stessi di 24 anni fa, anche se sono cambiati i modi e gli strumenti: il popolo di verde vestito non si ritrova più sulle rive del Po, ma su Twitter, non urlano più frasi semplicistiche per problemi complessi, le digitano in un italiano approssimativo sui “social”.

Adesso però non c’è più distinzione tra meridionale e settentrionale: adesso siamo tutti Italiani! WOW, che conquista!

Ok… ma ogni tanto io mi chiedo… ma la mafia, che fine ha fatto?

 

 

Minchia, Anna…! E che palle!

Minchia, Anna…! E che palle!

Ma non posso farci niente! Non sono io, è la mia ansia che si impossessa delle mie facoltà intellettive rendendomi una deficiente.

Lo so, mi ridurrò come la mia vicina di casa che quando ha qualcosa che la turba comincia a cercare il gatto in modo ossessivo a qualsiasi ora del giorno o della notte. O come mia nonna, che passava la giornata a controllare se aveva le chiavi di casa in borsa. O mio padre che spesso, dopo essersi allontanato dalla macchina appena parcheggiata, tornava indietro a controllare se l’aveva chiusa.

Non ci posso fare niente: quando c’è qualcosa che mi mette ansia mi incistisco con una cosa, una piccola cosa, e nel mio cervello diventa il problema più importante del mondo.

Come la valigia. Uno dei tre deve partire in aereo ma non aveva la valigia. Nella mia mente era semplice: vado in un negozio e ne compro una, ne troppo grande ne troppo piccola. Ora, nel negozio ne avevano di morbide, di rigide, di grandi, di piccole, di medie, di costose, di economiche, in offerta. Solo che non avevano quella che nella mia mente era la dimensione giusta e sono tornata a casa senza.

E così ho flagellato amiche e parenti alla ricerca di consigli e conferme aumentando così la casistica di modelli e posti dove acquistarla. Finché, allo scadere del tempo massimo, ne ho comprata una. Che una volta a casa si è dimostrata troppo grande ma che il pargolo dovrà usare lo stesso per il suo viaggio.

Ora, io mi dico, una cazzo di valigia ha catalizzato la mia mente e la mia ansia per due giorni! E sono riuscita a comprare quella sbagliata! Considerando poi che al ragazzo fotte una mazza della sua valigia e delle sue dimensioni, direi che il quadro è completo…

Ma non è normale… Razionalmente sono consapevole che quello che mi mette ansia è che il pargolo prenda un aereo e se ne vada in giro per l’Europa in un momento non proprio sereno, ma il mio problema si focalizza su di lei, una stupida valigia troppo grande.

Ormai riesco a percepire i sottotitoli anche in risposte cortesi di amiche e parenti: Minchia, Anna…! E che palle!

 

Leggeri

Un prato.
In montagna.
Una giornata di sole.
Cantare a squarciagola una canzone che ti entra nella pelle.
Ballare. Ballare senza vergogna. Ballare senza pensare. Ballare la musica. Liberi.
A piedi nudi.
Con gli occhi chiusi.

E poi urlare.
Con tutto il fiato che c’è.
Fin che ce né.

E poi correre.
Correre più veloce che si può.
Più lontano che si può.

E poi accasciarsi per terra. Sudati. Stanchi. Leggeri.

Ridere.
Ridere fin che fa male la pancia. Fin che scendono le lacrime.

Stappare una birra. Sentirla scendere nella gola, fredda e amara.

Sentirsi bellissimi.
Sentirsi sinceri. Senza barriere, senza difese.
Sentire di non voler essere in nessun altro posto se non lì. In quel momento.

Sentirsi guardati con desiderio.
Capire di piacere a chi ti piace. Capire di piacerti un sacco.

Vedere il cielo e poterlo toccare soltanto allungando la mano.
Sentirsi immortali. Senza domani. Ma in attesa della sera, in attesa di un fuoco, di voci sussurrate, di confidenze.

Secondo me il paradiso è così.