Da mamma a madre

Da due settimane ho smesso di essere “mamma” e sono diventata “madre”.

Questo è quello che succede quando la prole va al liceo.

Non sei più la “mamma di” ma diventi la “madre di”.

Posso illudermi quanto voglio, ma “mamma”, ché ché se ne dica, non è sinonimo di “madre”. “Mamma” è dolce, tenera, affettuosa, sottintende amore, accudimento, protezione. “Madre” invece… madre è dura, distante, seria e severa.

“Mamma” è giovane, “madre” è… matura.

Il passaggio da “mamma” a “madre” è improvviso, inaspettato e non subito lo percepisci: capisci che c’è qualcosa che non ti torna ma all’inizio fai fatica a focalizzare. Poi, pian piano, realizzi che  la donna che i tuoi figli definivano la “mamma” del loro amico, improvvisamente è diventata la “madre di”, detto sottolineando quel suono duro finale “dre”.

Ti ritrovi in meno di un mese catapultata in un mondo al quale noi eri pronta, trascinata in un vortice dove tu dovresti essere il faro illuminante e invece non sei altro che una poveretta che assiste a degli avvenimenti. Ti ritrovi a credere di essere ancora quella che dà e nega permessi, quando in realtà nessuno te li sta più chiedendo. Ti stanno solo informando. “Rimango fuori a pranzo”, “vado al collettivo”, “devo studiare”, “esco” non hanno più un punto di domanda, sono affermazioni. E tu balbetti un “va bene…” cercando di dirlo prima che la porta si richiuda per avere l’illusione di essere stata tu a dare il benestare.

La mamma semina, la madre raccoglie. La mamma dice sì o no, la madre al massimo cerca di capire, discutere, far ragionare.

E sai bene che questo non è che l’inizio.

Però di figli nei hai tre, e per uno di questi sei ancora la “mamma”, quella che passa due ore al parchetto a guardarlo giocare. Nonostante lei abbia freddo. Nonostante non ci sia nessuno con cui chiacchierare perché le altre “mamme” del parchetto hanno altre età e altri giri. Nonostante a casa ci siano le bozze da lavorare e i panni da stirare.

E per un attimo, giuro per solo un attimo, ti passa per il cervello l’idea di fargli una proposta: “tesoro, non è che hai voglia di andare al collettivo così io torno a casa?”

 

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Semel scout, semper scout

Un articolo di Forbes, in spagnolo, elenca i 10 motivi per cui conviene assumere uno scout. Un sito italiano, supercattolico, riporta la notizia con una traduzione sommaria e l’articolo comincia a diffondersi sul web. Repubblica, molto attenta a tutto ciò che può procurare click, riprende la notizia e traduce ulteriormente l’articolo originario.

Ora, io sono stata una di quelli che ha condiviso il link del primo sito nonostante il sito stesso, un po’ perché l’articolo mi è parso divertente, un po’ perché mi ci sono ritrovata e un po’ perché mi illudo di essere veramente così.

Quello che però Forbes non dice è cosa si prova, dopo essere stati assunti, quando i colleghi scoprono che tu sei (o sei stato) scout.

La gente “normale” spesso non ha la minima idea di chi siano e che cosa facciano gli scout, soprattutto quelli grandi, ma tutti hanno una loro opinione: i commenti fatti dai giudici di XFactor settimana scorsa al gruppo di ragazzi milanesi scout ne è solo un piccolo assaggio.

La domanda che manda in crisi qualsiasi scout è “ma cosa fate ai boy scout?”, perché la risposta è lunga, come solo può essere lungo spiegare qual è il senso della vita per te (che poi… diciamocelo una volta per tutte… “boy scout” non si può proprio sentire…)

Ti ritrovi a dover dare spiegazioni a chi ti guarda con quel mezzo sorriso di chi sai bene ti sta già prendendo per il culo e al quale sei consapevole non riuscirai mai a far cambiare idea nemmeno a mazzate sulla testa. Le idee sono confuse, annebbiate da stereotipi, luoghi comuni e profonda ignoranza. Questo perché tantissima gente è venuta a contatto con gli scout prima o poi nella propria vita, e poco importa se la propria esperienza è stata solo sporadica, casuale e lontana negli anni della propria infanzia. C’è chi li ha odiati mentre cantavano su un treno, chi li ha visti mentre affiancavano la protezione civile in qualche emergenza senza capirne il ruolo, chi li ha derisi per strada mentre camminavano in braghe corte anche con la neve, detestati quando hanno sostenuto una posizione clericale, giudicati quando si sono messi e hanno messo in discussione principi cattolici, biasimati quando li hanno incontrati su qualche sentiero di montagna con attrezzatture spartane.

Per quelli di sinistra gli scout sono dei fascisti in braghe corte (e qui tutti quelli che conoscono la storia dello scoutismo durante il fascismo hanno un tracollo di bile), per quelli di destra dei comunisti sovversivi (e qui il tracollo di bile ce l’hanno tutti quelli che conoscono il metodo scout).

Per chi non è cattolico l’Agesci, l’associazione scout cattolica, è sinonimo di CL (qui il tracollo ce l’hanno sia i ciellini sia quelli dell’Agesci), per chi è cattolico invece l’Agesci è una associazione sovversiva, una mina vagante all’interno delle parrocchie (e qui il tracollo di bile ce l’hanno i vari capi che fanno parte dei Consigli Pastorali).

Per i genitori benpensanti orgogliosi della propria discendenza, i gruppi scout sono un luogo sicuro frequentato solo da ragazzi per bene, per i genitori disperati l’ultima spiaggia prima di spedire la propria prole in comunità di recupero.

Per chi va in montagna con il Cai, degli sprovveduti; per chi è solito andare al mare, dei pazzi che vivono in tenda sui monti.

Per i sostenitori di Renzi un’associazione che garantisce la buona fede e l’onestà della formazione del presidente del consiglio (ovviamente tutta gente che non è mai stata scout), per i detrattori una setta massonica che ha posizionato il suo uomo su una poltrona di potere (e qui i veri massoni festeggiano nei i loro cappucci perché è evidente che la loro vera identità è al sicuro).

Quando ci sono le elezioni amministrative mi capita di riconoscere i nomi di gente che so per certo essere stata scout praticamene in tutte le liste di tutti gli schieramenti, da destra a sinistra passando per il centro, sempre che queste definizioni oggi abbiano ancora senso.

I dieci motivi per assumere uno scout sono bellissimi e forse un fondo di verità ce l’hanno anche. Sono convinta che lo scoutismo, soprattutto vissuto da adulti, sia un’ottima scuola di politica: nello scoutismo non esiste il pensiero unico ma l’unità di intenti e questo sviluppa inevitabilmente l’arte del compromesso, la passione per il dibattito e il confronto, la capacità di trovare soluzioni condivise, efficaci, economiche e semplici.

E forse è anche per questo che, rimanga tra noi, nei miei tanti anni passati in Agesci ho conosciuto un sacco di persone, e, lo confesso, io alcune non le assumerei mai…

Orgoglio e pregiudizio (anche se non c’entra nulla con quello di Jane)

Nelle scorse settimane e poco fa ho commesso “l’errore”: ho pubblicato su Facebook dei post che parlano dei miei figli, post in cui li prendo in giro o racconto eventi che li riguardano ma che, a ben vedere, trasudano orgoglio materno da ogni battuta. Sono quel genere di post che quando li rileggo provo fastidio io stessa, come se ad averli scritti fosse stato qualcun altro e i figli non fossero i miei. Insomma, li rileggo e penso “che palle”.

“L’errore” è quello in cui ogni tanto inciampo e al quale, una volta commesso, trovo molto difficile porre rimedio. Perché cancellare un post è per me un atto di vigliaccheria, anche se ogni tanto lo faccio, perché spesso non è altro che un sottinteso “ho fatto una cazzata, ho schiacciato invio prima di pensare”.

Parlare dei propri figli agli altri è difficile. Devi barcamenarti per contenere l’orgoglio sfrenato senza cadere, al contrario, nel dileggio, nella falsa modestia o nel “il mio povero piccolo”. Premesso che l’oggettività di un genitore nei riguardi del proprio figlio non esiste, migliaia di post sui figli altrui ci hanno ormai insegnato che esaltare le capacità, i successi, le bellezze, la simpatia, le riflessioni del pargolo, oppure difendere la propria prole come solo mamma tigre di fronte al cattivo di turno sa fare, ha spesso come effetto quello di scatenare in buona parte di chi legge sentimenti negativi come fastidio, invidia, giudizio… Non in tutti, grazie al cielo, ma in molti.

Non è comunque un problema nuovo nato con Facebook e alimentato da noi quasi cinquantenni tastieristi di pc incalliti. Un tempo le lodi e le difese a spada tratta dei figli erano discorsi (e non post) da cortile della scuola, giardinetti e supermercato. Li nascevano e lì finivano, salvo poi essere riportati di bocca in bocca arricchiti ad ogni passaggio di particolari e dettagli che poco avevano a che fare con la verità. Ma potevi sempre negare: anche se il pettegolezzo è una brutta bestia, mancava comunque la prova principe, la fotografia.

Oggi invece abbiamo sia i discorsi da cortile sia i post. E questi ultimi sono lì, letti e commentati sugli smartphone da panchina del giardinetto.

E di ‘sti bambini belli e bravi non se ne può più…

Quindi, cari genitori dalla tastiera facile, rilassiamoci, respiriamo e viviamo sereni: i nostri figli sono e saranno dei cazzoni esattamente come quelli di tutti gli altri. Qualcuno se la caverà meglio, qualcuno farà più fatica, qualcuno avrà più successo, qualcuno sarà più affettuoso, qualcuno più intelligente, qualcuno più bello, qualcuno avrà risultati sportivi, qualcuno accademici… Se saranno fortunati, più cresceranno e più saranno quello che vorranno essere, oppure, se saranno sfortunati , saranno la brutta copia di quello che noi avremmo voluto che fossero.

Ora che ho scritto tutto questo mi sorge un dubbio: non è che io sono solo un po’ stronza perché mi stanno sulle palle i genitori “mio figlio è fighissimo” quando, in realtà, io, agli occhi altrui, sono esattamente come loro?

 

 

 

E se il divano comincia a viaggiare?

Potrei raccontarvi di un viaggio bellissimo. Potrei raccontarvi di un mese di ansie prima della partenza che si sono via via dissolte man mano che il numero di aerei da prendere e delle frontiere da attraversare diminuiva. Potrei raccontarvi che cosa significhi impostare un navigatore e vedere che la prima svolta a sinistra è tra 600 chilometri.

Potrei raccontarvi di tramonti e di albe nella savana, sul fiume, sull’oceano. Potrei raccontarvi di elefanti, leoni, bufali e giraffe, di dune, spiagge e onde. Potrei raccontarvi che cosa si prova a viaggiare per ore senza vedere nemmeno un “bianco” o un vecchio, che cosa significa incontrare tantissimi posti di blocco e sperare che non fermino proprio te. Potrei raccontarvi di villaggi senza acqua da cui escono ragazzi e ragazze che vanno a scuola camminando in gruppo su strade assolate e polverose con indosso camice bianchissime. Potrei raccontarvi di bambini piccolissimi che camminano da soli lungo la strada. Potrei raccontarvi di frontiere dove nel giro di poche centinaia di metri il paesaggio cambia radicalmente, pur essendo la stessa terra, lo stesso cielo. Potrei raccontarvi di posti così belli da togliere il fiato. Potrei raccontarvi l’Africa e le sue contraddizioni.

Ma non lo farò perché non ne sono capace. Perché io non sono una viaggiatrice.

I viaggiatori sono quelli che si abbandonano al viaggio, che non hanno timore dei posti di blocco, dei contrattempi, della gente che ti avvicina mentre contratti il prezzo di un pesce o di un cesto, che si godono ogni momento senza preoccuparsi di quello che succederà dopo. Sono quelli che imparano velocemente la lingua, che ne assorbono i termini al volo, che memorizzano parole e nomi e li riutilizzano immediatamente. Sono quelli che sembrano acquisire comportamenti e modi di fare come per osmosi, stando semplicemente in un posto. Sono quelli curiosi, che fanno domande, osservano, leggono, si segnano indirizzi e numeri di telefono “per la prossima volta”.

Io non sono una viaggiatrice, ma nemmeno una turista. Io sono un divano.

Io contemplo, osservo, sono curiosa ma non faccio domande, non imparo la lingua e mi vergogno a parlare anche il mio misero inglese. Io ho paura di sbagliare, di non capire, di essere fraintesa, di arrivare in ritardo, di comportarmi nella maniera non corretta. Ho paura di essere banale, ridicola, pacchiana. Ho paura di non capire usi e costumi, di sembrare arrogante.

Mi mette a disagio l’usanza del contrattare, le persone che lavorano per farmi stare bene, non so mai se devo lasciare la mancia e quale sia la cifra corretta, faccio fatica a capire le persone appena conosciute.

Ma mi perdo nei tramonti e nelle albe, rimango affascinata e turbata da un modo di vivere diametralmente opposto al mio, mi faccio domande, osservo la gente e cerco di immaginare la loro vita, le loro fatiche, quello che possono pensare vedendo me, europea impacciata, timorosa e disorientata di fronte a tanta bellezza e tanta povertà. Che poi povertà non è la parola corretta, perché l’impressione che ho avuto girando per le strade del Mozambico non è stata che loro fossero poveri, ma che io fossi dannatamente ricca. Dal mio divano viaggiante mi è apparsa in tutta la sua chiarezza tutta l’ingiustizia del mondo.

I viaggi un pochino cambiano le persone e questo un pochino ha cambiato anche me.

Grazie quindi a chi mi ha convinta a partire nonostante sapesse bene che io sono un divano. Che ha organizzato, prenotato, tradotto, contrattato e interceduto per noi. Che ci ha ospitato e spiegato un Paese.

Grazie ad Andrea, Catherine e Zeno.

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