E se il divano comincia a viaggiare?

Potrei raccontarvi di un viaggio bellissimo. Potrei raccontarvi di un mese di ansie prima della partenza che si sono via via dissolte man mano che il numero di aerei da prendere e delle frontiere da attraversare diminuiva. Potrei raccontarvi che cosa significhi impostare un navigatore e vedere che la prima svolta a sinistra è tra 600 chilometri.

Potrei raccontarvi di tramonti e di albe nella savana, sul fiume, sull’oceano. Potrei raccontarvi di elefanti, leoni, bufali e giraffe, di dune, spiagge e onde. Potrei raccontarvi che cosa si prova a viaggiare per ore senza vedere nemmeno un “bianco” o un vecchio, che cosa significa incontrare tantissimi posti di blocco e sperare che non fermino proprio te. Potrei raccontarvi di villaggi senza acqua da cui escono ragazzi e ragazze che vanno a scuola camminando in gruppo su strade assolate e polverose con indosso camice bianchissime. Potrei raccontarvi di bambini piccolissimi che camminano da soli lungo la strada. Potrei raccontarvi di frontiere dove nel giro di poche centinaia di metri il paesaggio cambia radicalmente, pur essendo la stessa terra, lo stesso cielo. Potrei raccontarvi di posti così belli da togliere il fiato. Potrei raccontarvi l’Africa e le sue contraddizioni.

Ma non lo farò perché non ne sono capace. Perché io non sono una viaggiatrice.

I viaggiatori sono quelli che si abbandonano al viaggio, che non hanno timore dei posti di blocco, dei contrattempi, della gente che ti avvicina mentre contratti il prezzo di un pesce o di un cesto, che si godono ogni momento senza preoccuparsi di quello che succederà dopo. Sono quelli che imparano velocemente la lingua, che ne assorbono i termini al volo, che memorizzano parole e nomi e li riutilizzano immediatamente. Sono quelli che sembrano acquisire comportamenti e modi di fare come per osmosi, stando semplicemente in un posto. Sono quelli curiosi, che fanno domande, osservano, leggono, si segnano indirizzi e numeri di telefono “per la prossima volta”.

Io non sono una viaggiatrice, ma nemmeno una turista. Io sono un divano.

Io contemplo, osservo, sono curiosa ma non faccio domande, non imparo la lingua e mi vergogno a parlare anche il mio misero inglese. Io ho paura di sbagliare, di non capire, di essere fraintesa, di arrivare in ritardo, di comportarmi nella maniera non corretta. Ho paura di essere banale, ridicola, pacchiana. Ho paura di non capire usi e costumi, di sembrare arrogante.

Mi mette a disagio l’usanza del contrattare, le persone che lavorano per farmi stare bene, non so mai se devo lasciare la mancia e quale sia la cifra corretta, faccio fatica a capire le persone appena conosciute.

Ma mi perdo nei tramonti e nelle albe, rimango affascinata e turbata da un modo di vivere diametralmente opposto al mio, mi faccio domande, osservo la gente e cerco di immaginare la loro vita, le loro fatiche, quello che possono pensare vedendo me, europea impacciata, timorosa e disorientata di fronte a tanta bellezza e tanta povertà. Che poi povertà non è la parola corretta, perché l’impressione che ho avuto girando per le strade del Mozambico non è stata che loro fossero poveri, ma che io fossi dannatamente ricca. Dal mio divano viaggiante mi è apparsa in tutta la sua chiarezza tutta l’ingiustizia del mondo.

I viaggi un pochino cambiano le persone e questo un pochino ha cambiato anche me.

Grazie quindi a chi mi ha convinta a partire nonostante sapesse bene che io sono un divano. Che ha organizzato, prenotato, tradotto, contrattato e interceduto per noi. Che ci ha ospitato e spiegato un Paese.

Grazie ad Andrea, Catherine e Zeno.

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