Sono passati sette anni.
Quanto ci vuole a rielaborare un lutto?
Chi era mio padre?
Non parlo facilmente di lui. O meglio, non ne parlo quasi mai veramente. Troppo complicato per me. Significherebbe raccontare chi sono io veramente, da dove vengo, e fa male.
Di quel 22 maggio 2010 invece ne parlo spesso, un po’ come avviene per il parto: una giornata traumatizzante, sconvolgente. Iniziata con la consapevolezza che sarebbe stata l’ultima, con quel sentimento contrastante di non vedere l’ora che finisca al più presto tutta quella sofferenza e allo stesso tempo che non finisca mai. Il 22 maggio finì, e il 23 appena iniziato si portò via mio padre.
Si parla così poco della morte. Eppure quando ci sei in mezzo è sconvolgente scoprire come sia normale. Così come la nascita. Sono entrambe così piene di vita, così intrise di dolore e sollievo, così viscerali e irrazionali. Difronte a entrambe tu sei completamente impotente, e l’unico modo per superarle è abbandonarsi ad esse e attraversarle lasciandosi trasportare.
La fine e l’inizio. E nel mezzo la vita.
Che spesso non è quella che forse avremmo voluto, ma che amiamo solo per il fatto che ci è capitata. Nonostante le apparenze, non credo che la vita di mio padre sia stata facile, e non mi riferisco solo agli ultimi suoi sette anni. Credo che lui avrebbe voluto qualche volta essere altro e altrove ma che alla fine gli sia mancato il coraggio. Per buon senso, per convenzione, per quell’educazione rigida che ha ricevuto, alla quale credo a un certo punto della sua vita abbia anche tentato di ribellarsi, ma che poi si sia innamorato di mia madre e abbia scelto un’altra felicità.
Da mio padre ho ereditato l’insicurezza, l’ansia, l’amore per il divano e per le trasmissioni trash. Mi ha trasmesso lo stupore di fronte alla montagna, il senso del dovere e della giustizia. L’ho detestato, almeno tanto quanto detesto me quando mi scopro addosso suoi gesti, sue paranoie. Era maldestro nel dimostrare affetto, ingessato nel suo “dover essere”, ma si intravedeva la sua vera natura quando suonava e cantava per qualcuno. La intravedevo quando non mi diceva mai di no per un viaggio che volevo fare, mai un no se uscivo la sera, non ho mai avuto un orario di rientro, non mi disse niente nemmeno quando per un anno all’università non diedi nemmeno un esame. Aveva fiducia in me e gli piaceva vedere che mi godevo i miei vent’anni, ma non voleva darlo a vedere troppo. Ogni tanto cerco di immaginare come avrebbe potuto essere se fosse nato da un’altra parte, in un’altra famiglia.
Oggi, dopo sette anni, me lo immagino in cima a una montagna che canta a squarciagola fumandosi una sigaretta. E che manda a fanculo tutti ridendo di gusto.
Finalmente libero di farlo.