Caro Gesùbambino

Caro Gesùbambino, scrivo a te perché, scusa la sincerità, a me BabboNatale mi sta un po’ sulle palle. Gioia, non mi ha fatto nulla in verità, è che proprio mi sta antipatico, così, a pelle.

Mi rivolgo a te perché forse tu sarai più comprensivo: sei piccino, sicuramente ancora innamorato della tua mamma e quindi forse più disposto a comprendermi, piuttosto che un vecchio barbuto che probabilmente soffre anche lui della sindrome “dell’uomo che spiega la vita alle donne”. Secondo me è misogino: uno che si circonda di folletti e renne avrà avuto sicuramente un rapporto conflittuale con la figura materna.

Senti Gesùmba, allora, io quest’anno ho cercato di essere buona, giuro che ci ho provato. Ma tu capisci che superati i 45, una si è anche rotta un po’ le palle di essere sempre buona. Sono donna, sono italiana, e questo, tu comprenderai, non mi facilita spesso la vita.

Lo so, sto trovando delle scuse…

Comunque… In questo ultimo anno mi rendo conto che sono stata un po’ più antipatica. Non riesco più come un tempo a stare zitta e mi rendo conto che sto trovando sempre più appagante essere sarcastica e dire ad alta voce quello che non mi piace, se non addirittura tutto quello che mi passa per il cervello. È più forte di me. Quindi spero che perdonerai il mio dare di matto quando trovo i panni sporchi gettati davanti all’armadietto delle cose da lavare anziché dentro.

Ecco, caro Gesùmba, nonostante tutto questo, per questo Natale vorrei scriverti anche io la mia letterina di desideri.

Vorrei che nessuno più mi “spiegasse la vita”: giuro che io non reggo più chi mi spiega per ore cose che so già. Questo ovviamente non significa che io sappia tutto, ma nella mia età avanzata sono arrivata alla conclusione che è questa la forma di maschilismo che ormai tollero di meno. Anche perché per reazione mi ritrovo sempre più spesso a essere io quella che spiega la vita agli altri, risultando così saccente e antipatica, cosa che non mi piace essere.

Vorrei che chi ama gli animali così tanto amasse di più gli uomini. Boh, non mi chiedere perché, ma io ormai diffido di chi dice “meglio gli animali degli esseri umani”. È facile amare e farsi amare da un cane o da un gatto: lo nutri, gli dai una cuccia, un divano e, a meno che non sia un cane traumatizzato psicopatico che hai recuperato in un canile, ti amerà tutta la vita. E tu sei comunque il suo padrone e signore (altro che “mamme umane”, che, vi prego, come definizione non si può proprio sentire…). Con gli esseri umani è tutto più complicato. Diciamo che chi ama gli animali va in canotto vicino alla riva, mentre chi ama gli uomini va in barca a vela in mare aperto: una cosa non esclude l’altra, ma diciamo che se vuoi definirti una brava persona (un velista) non basta amare gli animali. (Non so perché mi è venuto fuori ‘sto pippone, ovviamente non mi riferisco a nessuno dei miei conoscenti reali o virtuali che amano gli animali… tranquilli, per me siete tutti velisti!).

Il terzo desiderio è di donarmi un po’ di leggerezza. Ecco, in effetti dieci chili in meno mi farebbero piacere, ma quello che vorrei veramente è tornare ad essere un po’ più svampita, meno seriosa e scontrosa. Vorrei essere come quelle persone che ti guardano sorridenti ma è evidente che non hanno capito la tua battutaccia polemica e ironica, e se non l’hanno capita è perché sono anime pure, buone, sorridenti. Ecco, io vorrei la sostanza che prendono loro. Vorrei guardare la gente con sguardo interrogativo, con un sano ottimismo sorridente, senza preconcetti.

Il quarto desiderio è che tu cancellassi tutte le figure di merda che ho fatto nell’ultimo anno, gli appuntamenti che mi sono dimenticata, le frasi che avrei potuto non dire o non scrivere. Ecco, via, cancellate dalla mia e dalla memoria altrui, come se non fosse successo nulla.

E infine, ovviamente, caro Gesùmba, che i miei figli fossero felici, che loro fossero sì veramente leggeri e sorridenti. Perché se lo meritano.

Grazie anticipatamente per tutto quello che potrai fare.

Ciao Gesùmba. Buon compleanno.

Ci si vede tra un paio di giorni.
Con affetto.

Anna

 

 

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Incipit excipit

Io invidio gli scrittori. Quelli veri intendo. I romanzieri.

Quelli la cui mente è abitata da personaggi. Quelli che fissano la gente sul tram e gli parte la storia. Quelli che si documentano prima di scrivere qualsiasi cosa.

Quelli che massacrano di domande chi conosce un certo posto o che ha vissuto una certa vicenda, perché la vogliono conoscere meglio di se stessi prima di scriverne. Invidio chi ha un’ossessione. Quelli che soffrono mentre scrivono, che non riescono a smettere finché non giungono alla fine.

Invidio gli scrittori che non parlano della loro vita, ma la loro vita diventa il linguaggio con cui scrivono.

Quando andavo a scuola trovavo così noioso e inutile studiare le biografie dei grandi autori. E mi chiedo perché cavolo nessuno non mi abbia mai spiegato per bene che è da lì che nasce l’arte di uno scrittore, che da lì vengono le parole che usa, prima ancora dei personaggi e delle vicende di cui narra.

Io invidio gli scrittori ribelli. Quelli che stravolgono il modo di scrivere, che inventano, che riescono a giocare con le parole. Quelli che sono capaci di portarti in mondi e in posti che non hai mai visto ma che quando arrivi all’ultima pagina conosci e riconosci meglio di casa tua.

Invidio chi riesce a dare vita a personaggi che non esistono ma che alla fine sono vivissimi, parlano, ragionano, amano, imprecano, peccano, cadono, si rialzano.

Invidio chi ha il colpo di genio dell’incipit perfetto.

Romanzare significa rendere interessante qualcosa, renderlo avvincente.

Qualsiasi storia, anche la più semplice e banale, può diventare un romanzo se data in mano a uno scrittore.

Non sono una forte lettrice, perché sono pigra e leggere costa fatica. O meglio, costa fatica iniziare.

E non ho un romanzo nel cassetto. Non ho personaggi da vestire, luoghi da esplorare, vicende da approfondire, storie da raccontare.

Non sono una scrittrice.

Eppure mi piacerebbe un sacco avere un incipit che mi portasse a un excipit…

 

Il cinema

“Giuro che questa è l’ultima volta”.

Ogni volta che esco da un cinema me lo ripeto. E non perché non mi piaccia il cinema. Anzi.

Il problema è che ogni volta che vado, non so se per sfiga o cosa, io capito sempre vicino a qualcuno che parla ad alta voce, o commenta, o parla al telefono, o mangia patatine dentro a sacchetti rumorosissimi. E io non lo sopporto.

Anche in casa non sopporto quando durante un film qualcuno parla o commenta.

Ecco.

Oggi pomeriggio, seduti al cinema davanti a me e al Gio c’erano madre con due figli e sacchetto delle patatine fatto di non so quale materiale acustico; dietro coppia di ragazzi con cellu in mano dove uno dei due non capiva una mazza e continuava a chiedere delucidazioni all’amico accanto facendogli perdere a sua volta le battute e quindi il senso della storia; a sinistra coppia di amiche settantenni che hanno commentato ogni situazione sfoderando tutto il repertorio dei luoghi comuni dei vecchi sui giovani; e, ciliegina sulla torta, a destra vecchietto in là con gli anni, solo, con il bastone che ripeteva ad alta voce ogni battuta. Ogni singola battuta. E così, nella scena più dialogata e importante, la tipa che stava davanti a lui (settantenne, stampelle e amica accanto a cui lei stessa spesso si è rivolta per commentare) è sclerata, invitando animatamente il povero vecchietto a tacere.

Ma perché? Ma perché sempre a me?

Così quando ho capito che non ne potevo più, ho sussurrato al Gio “ti prego, all’intervallo spostiamoci”. E lui si è girato, mi ha guardata con sguardo sogghignante e mi ha risposto con voce sadica “non c’è intervallo”…

Eppure tutto era nato nel migliore dei modi. Un pomeriggio che si libera improvvisamente e io e il Gio che ci infiliamo nel cinema pochi minuti prima dell’inizio. Il film era “Gli sdraiati”, niente di trascendentale.

La scelta era stata dettata più che altro dalla curiosità, soprattutto della location, ovvero il liceo frequentato da uno dei nostri figli. E in effetti è stato divertente vedere i corridoi e soprattutto il salone dove anche noi abbiamo aspettato più volte per poter parlare con i suoi professori. E a chi mi conosce, sa come la penso e conosce le mie vicende dell’ultimo anno, mi basta dire che la battuta di una madre che uscendo da un colloquio esclama “basta, chiedo il nullaosta e lo trasferisco al Sacro Cuore”, vale tutto il film.

Insomma, il film è carino, Milano sembra bellissima, e adesso abbiamo capito perché da quando i due “sdraiati” di casa lo hanno visto, si rivolgono al consorte dicendo “Gio, mi spezzi”…

Alla fine non ho ammazzato nessuno.
Però lo giuro, questa è stata l’ultima volta al cinema.

 

La notte

Mi piace un sacco camminare di notte. Mi piace perfino guidare di notte: poca gente per strada, niente traffico. 

Mi piace lavorare di notte: lampada accesa, musica nelle orecchie, il resto della casa buio e silenzio. Peccato che più invecchio più diventa difficile farlo: ci vuole un sacco di forza… Mi piaceva studiare di notte. Mi piaceva andare alla biblioteca Calvairate che era aperta fino alle undici. La mia tesi di laurea è stata scritta di notte. 

Nello studio editoriale dove ho iniziato e ho imparato il lavoro che ancora oggi faccio, in questo periodo spesso si faceva tardi. Uscivo che ero distrutta, mi accasciavo sul tram che stancamente mi riportava a casa e mi godevo il centro di Milano illuminato per Natale, al buio. E nonostante tutto ero felice. Oppure veniva a prendermi il gio in moto e passavamo da strade e stradine del centro dove sbirciavo dal casco le finestre illuminate di palazzi bellissimi. 

Ancora adesso se ho qualche riunione a scuola o esco con qualche amica mi piace camminare verso casa da sola. 

Mi piace la notte. 

Il travaglio di tutti e tre i miei figli è iniziato di notte e per tutti e tre ho un ricordo bellissimo di me e il gio che nel silenzio delle vie addormentate ce ne andiamo agitati ed emozionati verso la clinica. 

Di notte mi sono state dette le cose più belle, quelle più vere. Di notte ho chiacchierato un sacco, ho raccolto confidenze, mi sono confidata, ho pianto e ho riso fino alle lacrime. La notte non mi ha mai fatto paura anche se ancora adesso ho paura del buio. Perché di notte ci sono le stelle, c’è la luna, i lampioni, il fuoco, non c’è buio. 

Camminare di notte da sola è sempre stato per me il massimo della libertà, e grazie al cielo nessuno me lo ha mai impedito.

Perché il problema per me non mai stata stata la notte. Il problema era ed è tutt’ora la sveglia…