La leggenda narra

La leggenda narra che il 29 luglio 1970 una giovane sposa al nono mese di gravidanza, avesse una visita di controllo presso la clinica Quattro Marie, periferia est di Milano. Le avevano detto che il lieto evento avrebbe dovuto essere il 26, e così, essendo ormai oltre il termine presunto del parto, si accingeva quella mattina a recarsi in clinica per vedere come quella creatura, dal sesso ancora sconosciuto, stava messa. Affidò il suo primogenito, un bel bambino biondo di poco più di un anno, alla nonna, e con il suocero si avviò verso Ponte Lambro. Nel 1970 non era contemplato che il consorte perdesse un giorno di lavoro per accompagnare la moglie in procinto di partorire, ma d’altronde gli uomini non erano ammessi in sala parto e quindi la loro presenza era del tutto inutile.

Dovete sapere che a fine luglio 1970 la costruzione della tangenziale est era nel pieno dei lavori: un’opera immensa, intrisa di fascino che avrebbe rivoluzionato le abitudini e le imprecazioni dei milanesi negli anni a venire. Fatto sta che la tangenziale stava sorgendo proprio accanto alla clinica, e così il suocero, lasciata la nuora dinnanzi all’ingresso, pensó di ingannare l’attesa andando a vedere da vicino il progredire dei lavori. La nuora, del tutto serena dal momento che nessuna avvisaglia le faceva temere un imminente travaglio, salutò il suocero e si recò alla sua visita di controllo. Ma qui avvenne l’inaspettato: il medico o l’ostetrica di turno (questa informazione non è stata ben tramandata) non appena dette un’occhiata decretò che il parto era imminente e che era bene che la giovane sposa rimanesse in clinica. Presa in contropiede, il primo pensiero della giovane gravida fu per il suocero. In un’epoca dove il cellulare era oltre anche le più ardite premonizioni fantascientifiche, decise che l’unico modo per avvisare il suocero fosse quello di andarlo a cercare personalmente. È così fece.

La leggenda narra che per fortuna, uscita dalla clinica e fatti alcuni metri in direzione del cantiere, la giovane sposa, in un momento di lucidità, si fermasse chiedendosi se non fosse un po’ avventato avventurarsi in una calda giornata d’estate, incinta di nove mesi e con un parto imminente, in un cantiere alla ricerca di un anziano. E così, girò i tacchi e tornò lesta da dove era venuta, dove fu accolta da una simpatica e affabile ostetrica.

Fu un travaglio discreto, che negli anni e nel ripetersi nella narrazione della leggenda arrivò ad essere descritto come una piacevole mattinata di chiacchiere, dove praticamente non successe nulla. E così, l’ostetrica, vedendo avvicinarsi sempre più l’ora di pranzo ma soprattutto l’ora di fine turno, ad un certo punto se ne uscì con un “va be’, vediamo di far nascere sto bambino che adesso son curiosa di vederlo.”

E così, non si sa bene come, poco dopo le 13, io venni al mondo. La leggenda non riporta quando e come ritrovarono mio nonno, quando e come fu informato dell’evento mio padre e dove dormì quella notte mio fratello. Poco importa. Sono nata il 29 luglio 1970 poco dopo le 13, a Ponte Lambro, accanto al cantiere dove si stava costruendo la tangenziale est. 48 anni fa.

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Vacanza

Le tre iene sono al campo degli scout.

Ormai sono via da quasi una settimana. Agli scout sono vietati i cellulari e la filosofia dei capi è “nessuna nuova, buona nuova”, questo significa che da quando sono partiti l’unica informazione giunta è una mail per dirci che erano arrivati sani e salvi e poi più nulla.

Alcuni genitori soffrono un po’ questo silenzio, invece a me piace un sacco.

Un po’ perché avendolo vissuto io in prima persona, so cosa significa il senso di libertà che si prova a tagliare i ponti con la propria vita per 10 giorni. E poi perché questo rende più bello il giorno del loro rientro. Di solito i grandi non raccontano una mazza e la loro unica preoccupazione è cosa mettersi per la pizzata che di solito segue il rientro, ma mi piace la sensazione che si prova quando ci si rivede dopo tanto tempo, quella loro aria misteriosa con cui mi guardano come per dirmi “tu non puoi capire…”. Il minore invece racconta sempre volentieri, con quella sua ironia che mi fa sempre molto ridere ed è sempre visibilmente e sinceramente felice di rivedermi. Come me di rivedere lui. E fin che dura me la godo tutta.

Quindi io ringrazio gli scout che per 10 giorni disintossicano i grandi dallo smartphone e me dal pensiero di avere sempre sotto controllo tre giovani esseri umani. Stranamente, io notoriamente persona ansiosa, non sono assolutamente in ansia, anzi.

Forse perché non ho quasi mai cenato a casa in questi giorni, ho rivisto amici, fatto aperitivi, passeggiato per il centro, comprato libri alla Feltrinelli, lavorato senza il pensiero di una cena da preparare, qualcuno da recuperare, in pigiama, dimenticandomi orari e appuntamenti, mangiato alle tre davanti a Law and Order insalata e scamorzine?

Sì, lo so, sono una madre di merda. Ma una vacanza ogni tanto ci sta, no?

 

Radical chic

Io e Matteo Salvini abbiamo molte cose in comune. È difficile per me ammetterlo ma è così. Non so in quale quartiere lui sia cresciuto, non sono ancora riuscita a scoprirlo, ma da quello che ho letto, immagino che lui provenga da una famiglia di classe sociale media, che sia cresciuto in un bel quartiere ma non certo di lusso, e che nella sua infanzia abbia pensato di essere ricco. Che poi al liceo, al Leoncavallo, in università abbia conosciuto i veri ricchi, si sia sentito escluso, ed eccolo qui: l’odio per i radical chic. I radical chic a Milano sono quelli ricchi ma che vanno in giro con maglioni bucati di cachemire, che frequentano posti di sinistra ma che gli unici operai che conoscono sono quelli che hanno ristrutturato il loro attico in centro, che hanno la donna di servizio 24 ore al giorno ma a cui sono “affezionatissimi”, che amano le cose usate a patto che siano vintage, detestano i centri commerciali e, fondamentalmente, la gente comune. Per intenderci: la val d’Aosta e la Toscana sono radical chic, il Trentino e la Romagna no. Andare in barca a vela è radical chic, il motoscafo no.

I radical chic hanno marche così esclusive che la gente normale non le conosce neppure, perché a loro “non interessa il marchio, ma la qualità” e si sa… la qualità costa… oppure hanno cose pagate tre lire su una bancarella a Bali, o nel negozietto carino carino di Berlino o Parigi. Da ragazzi hanno guadagnato i primi soldi raccogliendo frutta, facendo i camerieri, ma appena laureati hanno subito trovato lavoro nello studio dell’amico del papà.

Ecco, io so chi sono i radical chic.

Quindi capite la mia incazzatura quando mi sento dare della radical chic solo perché inorridisco di fronte a una classificazione delle persone, perché provo orrore difronte al cinismo con cui ci si accanisce contro della povera gente che muore. Quando mi scandalizzo di fronte alla strumentalizzazione della sofferenza della gente per fini politici. E in questo mi riferisco alla sofferenza della gente come me, che vede giorno per giorno andare in frantumi l’illusione di benessere che ci è stata regalata dai nostri genitori, vedendo il nostro lavoro sottopagato, ipertassato in cambio di servizi scadenti.

E mi fa incazzare questo qui, salito al potere con la bava alla bocca grazie a una manciata di voti e a un accordo infame fatto con degli incapaci. Mi fa incazzare perché è un frustrato, uno che avrebbe voluto essere un radical chic ma che presumibilmente non è stato accettato. Allora si è trovato una folla di gente stanca e frustrata a cui ha fornito degli esseri più deboli da bullizzare.

Una folla di gente così simile a me. Quella che ha avuto tutto nell’infanzia grazie al lavoro dei propri genitori, ma che nell’adolescenza ha conosciuto chi aveva veramente tutto e si è sentito un po’ come quando scopri che babbo natale non esiste.

Quella classe sociale cresciuta in piccoli appartamenti in periferia, ma che in periferia è sempre stata un po’ quella privilegiata. Quelli come me, che conoscono le case popolari, ma guai a confondersi con quelle.

Siamo un po’ come la borsa imitazione della nay oleari.

E mi fanno incazzare i radical chic che continuano a snobbare la gente dei centri commerciali, quella che guarda Maria De Filippi, che fa le vacanze Romagna.

E mi fanno incazzare quelli di sinistra che hanno regalato questa folla a un omuncolo mediocre che ha fatto della mediocrità una massa crudele anziché una massa sorridente. Una sinistra pavida che sussurra per non esporsi. Vorrei che qualcuno andasse sulle spiagge affollate, nei centri commerciali, a urlare che non è dividendo la gente in buoni o cattivi, bianchi e neri, italiani e non italiani, che riavrete il vostro benessere, che non sarà lasciando morire, rinchiudendo, picchiando e discriminando chi sta peggio di voi che starete meglio. Che non è facendo i cattivi che diventerete più ricchi. Al massimo diventerete sempre più simili ai radical chic. Ovvero degli stronzi.