Lavaggio strade

La via in cui abito è una delle poche rimaste a Milano con il lavaggio stradale settimanale. Questo significa che spesso il giovedì, quando ormai hai lavato i denti e stai già per buttarti nel letto, ti ricordi che bisogna spostare la macchina. Confesso che la stragrande maggioranza delle volte a scendere è il consorte, ma qualche volta ci vado io, anche perché la macchina da spostare è la mia. E così stasera, dopo aver urlato “quando torno vi voglio trovare tutti a letto”, ho messo le scarpe e con uno sforzo sovraumano, ho chiamato l’ascensore e sono scesa. Mentre scendevo ringraziavo il cielo di non avere un cane, così da avere questo supplizio solo una volta alla settimana e non tutte le sante sere.

Poi però, una volta uscita, mi ha accolto una serata che profumava di luna. Sono salita in macchina con il fare da gran donna vissuta, ho ingranato la marcia con la sicurezza di chi basta a se stesso e ho cominciato a girovagare alla ricerca di parcheggio come se guidare fosse la cosa che mi piace di più al mondo. Avrei potuto guidare per ore. Alla fine ho desistito e ho messo la macchina nel posto della disperazione, quello cioè dove la parcheggio quando proprio non so dove ficcarla. È una vietta tranquilla, poco frequentata. Da qualche tempo ci hanno messo delle panchine e stasera c’era un gruppo di persone che chiacchierava.

Ah… non so cosa avrei dato per aver qualcuno anche io con cui chiacchierare: una bottiglia di birra e una panchina su cui sedermi scomposta a ragionare sul senso della vita, a spettegolare, a ridere di scemate nel buio ovattato della notte. Come quando a vent’anni, nell’era pre-cellulare, capitava che dopo cena citofonasse qualche amica che diceva semplicemente “scendi un po’?”

Invece ho chiuso la macchina e con passo stanco sono tornata a casa, ho caricato la lavastoviglie, ho tirato giù le tapparelle, ho urlato “spegnete la luce che è tardi”, ho spento il computer cercando di memorizzare tutto quello che devo fare domani e mi sono infilata nel letto con il cellulare in mano.

Tra le cose da fare domani però ci metto “comprare della birra”. Se dovesse ripresentarsi una serata che profuma di luna, e dovesse citofonare qualcuno che ha voglia di chiacchierare, voglio essere preparata.

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Caro Dio

Caro Dio, quando ci incontreremo avrò un po’ di domande da farti. La prima la so già.

Nel Vangelo c’è scritto “chiedete e vi sarà dato” . Si parla di un uomo che sveglia di notte un altro uomo per chiedergli del pane. In principio l’uomo svegliato non vuole aprire la sua casa, ma colui che chiede è così insistente che alla fine ottiene tutto quello per cui era andato. Nel Vangelo c’è scritto che non bisogna temere di chiedere, che alla fine il Padre Buono ci darà tutto quello che chiediamo. Una volta, difronte alla mia domanda “perché allora non succedono i miracoli” mi fu risposto che bisogna fare le domande giuste. Vedi, caro Dio, io questa cosa non l’ho mai capita bene… A Lourdes il prete responsabile del campeggio provò a spiegarmi. Mi disse che il vero miracolo di Lourdes non è la gente che guarisce, ma la gente che dopo essere stata lì riparte con un nuovo rapporto con la malattia. Il miracolo è quindi l’accettazione.

Stasera non c’è una grotta, non ho vent’anni, non c’è un prete e io ancora non capisco.

Stasera ho assistito al concerto più bello, più commuovente, più sconvolgente della mia vita. Ho visto un miracolo con i miei occhi: una ragazzina piena di talento con una forza straordinaria eppure così delicata, cantare di fronte a un sacco di gente. Ho visto la sofferenza trasformarsi, abbandonarsi al pianto e poi trasfigurarsi in un sorriso.

Eppure, stanotte, la domanda “perché?” è qui con me.

Ormoni

Se non mi fossi sposata e se non avessi avuto figli adesso potrei essere due cose: o una stakanovista del lavoro, un po’ stronza e arrivista, oppure una donna sciatta, deformata da cibo spazzatura e ore davanti alla tv.

Non credo che avrei potuto essere una via di mezzo. Sicuramente non una single amante dello sport, della dieta sana, dei locali e di tinder con tanti amici e mille interessi.

O forse sì… mah… chi può dirlo…

Di certo avrei dovuto trovare in me la forza necessaria per alzarmi la mattina, farmi da mangiare, lavarmi, vestirmi… e l’unica cosa che credo avrebbe potuto darmela temo sarebbe stato il senso del dovere, il lavoro, la necessità di uno stipendio.

Invece, mi sono capitati un marito e tre figli, insomma, una famiglia. Che sì, è una figata sotto molto aspetti, e per questo mi sento molto fortunata e privilegiata.

Ma le “me” che avrei potuto essere mi fanno molta tenerezza, perché ci sono e vengono fuori in fasi alterne della mia vita, nei momenti più inaspettati. Ci sono periodi che sono tutta efficientismo, disponibilità e iniziativa e altri che vorrei essere solo un cuscino del divano. Forse dipende da quante bustine di magnesio mi faccio, quanto cioccolato mangio, quanto sole c’è fuori, chi lo sa… Ma questa sensazione, ovvero che sto vivendo solo una delle possibili vite che avrei potuto vivere, certe volte mi destabilizza. Il ché non significa che non mi piaccia la mia vita, è solo la vertigine di comprendere che sei quello che hai voluto o potuto essere ogni volta che la vita ti ha proposto dei bivi, regalato botte di culo o enormi sfighe, fatto fare incontri, posto degli ostacoli o innalzato muri.

E mentre faccio queste riflessioni mi ricordo che devo andare alla asl a registrare l’esenzione per gli esami alla tiroide… perché uno pensa di fare chissà quali grandi riflessioni sul senso della vita, ma poi alla fine è sempre e solo una questioni di ormoni…