Ho tre figli. E come tutte le madri radical chic di Milano, fin da quando erano piccoli, ho cercato di offrire loro più occasioni possibili perché potessero trovare il “loro” sport. Non ho mai detto di no a qualsiasi loro iniziativa, senza approfondire se l’entusiasmo mostrato a settembre fosse dettato da un reale interesse per lo sport appena scoperto, o la voglia di fare qualcosa con l’amico del momento. A tutti e tre ho solo imposto il nuoto fino a che fossero stati in grado di nuotare in mare lasciandomi serena a riva a leggere un libro. E così è stato.
In questi miei primi sedici anni da madre ho così avuto a che fare, grazie alle iniziative dei tre, con danza classica, ginnastica artistica, il suddetto nuoto, calcio, tennis, scherma, atletica, baseball, basket, canoa e parkur (o qualcosa di simile). La maggior parte di questi sono stati amori fugaci, da una botta e via, giusto il tempo di comprare tutto il necessario, imparare le regole e poi con l’arrivo di maggio, arrivederci e grazie.
Ho avuto a che fare quindi con terra rossa nei calzini, pantaloni bianchi a cui dover togliere strisciate d’erba (non ho mai capito come si possa rendere legali pantaloni bianchi per il baseball… comunque sempre forza Ares!), l’emozione di dover lavare una maschera da scherma e non sapere da che parte iniziare, vestiti inzuppati di acqua puzzolente dell’Idroscalo, tute di ogni tipo, accappatoi, costumi, cuffie, ciabatte, divise dai tessuti improbabili da lavare facendo attenzione a non rovinare i colori e i patacchini. Ecco… in questo lungo elenco me ne mancava uno… e le madri vere radical chic l’avranno già capito. Stasera, davanti a un sacchetto pieno di fango in cui si intravedevano una maglietta, delle calze e dei pantaloncini avrei voluto piangere. Sì, perché a me solo il rugby mancava…