Il sergente Foley

Siamo a novembre e io ho ricominciato il mio giro di colloqui con i professori dei miei figli. Io, la mia ansia, le mie mani sudate e la mia inadeguatezza, prendiamo l’autobus, il tram, il passante e ci sediamo composte in attesa che venga chiamato il mio cognome da sposata.

E mi ritrovo a parlare con professori empatici o anaffettivi, sorridenti o seri, saccenti o umili, confusi o sereni, agitati più di me o calmi come solo il dottor Lecter. Alcuni mi parlano dei miei figli informandomi anche dei loro voti, altri dei loro voti pensando che siano i miei figli.

Da alcuni colloqui esco rigenerata, mi viene voglia di tornare a casa e abbracciare i miei figli e dire loro che sono fortunati ad avere un professore o una professoressa così; da altri esco con la voglia di tornare a casa, abbracciare i miei figli e piangere con loro. Da alcuni professori io vorrei salvarli. E comincio salvando me stessa e mandando il consorte a parlarci. Perché io sono fondamentalmente vigliacca.

Eppure oggi, mentre ero lì che aspettavo tra un prof e l’altro, ho cominciato a pensare che forse i miei figli non hanno nessun bisogno di essere salvati. Che forse sono più forti di quanto io non creda.

Viviamo in tempi difficili, non è certo questo il mondo che io avevo in mente per loro e con molta probabilità dovranno lottare e avere coraggio per far valere le loro idee, per affermarsi, per difendere gli altri, per trovare il loro posto nel mondo.

E mi sono detta che forse il primo passo è questo. Che magari queste difficoltà serviranno a tirare fuori il meglio di loro, a far scoprire loro capacità che magari non pensavano di avere, che gli insuccessi serviranno a non pensare di essere invincibili, che gli serviranno a capire i loro limiti, le loro risorse e le difficoltà degli altri, a renderli più solidali, a scoprire che dopo una caduta ci si rialza, magari un po’ ammaccati, magari non nel modo in cui si voleva, ma ci si rialza.

Che si può sopravvivere al sergente Foley.

Ecco. Ero partita vestendo i panni della madre saggia e mi ritrovo a pensare che dopo una giornata di colloqui, l’unica cosa che vorrei è un divano, una copertina, un tè caldo e una tv con il bel Richard Gere dei tempi d’oro di “Ufficiale e gentiluomo”.

 

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I correttori di bozze

Secondo me tutto è iniziato quando hanno smesso di pagare i correttori di bozze. Abbiamo cominciato a perdonare tutto. I cartelloni pubblicitari hanno cominciato a mettere gli accenti sbagliati alle “e” e nessuno se ne é… pardon… se ne è accorto. Poi hanno cominciato a esserci errori nei giornali e qualcuno se ne è accorto, ma poi si è detto “vabbè, è un refuso”, “vabbè, non è importante” e così pian piano ci si è abituati a leggere testi scorretti e ci si è detti “si capisce lo stesso”.

Io credo che sia iniziato tutto da lì. In modo omeopatico ci siamo abituati all’approssimazione, al pressapochismo, alla semplificazione, al “ma sì, va bene lo stesso”.

Poi hanno cominciato a pagare meno i giornalisti, a non assumerli, e loro poveretti hanno capito che se volevano campare dovevano scrivere minchiate, oppure gonfiare notizie, riportarle… magari non esattamente false, ma nemmeno banalmente vere, diciamo verosimili. Stravolgendo un po’ le cose, in modo da fare più scalpore, far venire qualche prurito in più, colpire la pancia e avere qualche visualizzazione in più. La cronaca è diventata storytellig e si è scoperto che alla gente le notizie così piacevano di più e anche se qualcuno faceva notare che non erano vere, la gente rispondeva “va bè, non importa, potrebbero esserlo”.

Da quando si è confuso il verosimile con il vero, abbiamo cominciato a credere a qualsiasi rappresentazione della realtà ci venga proposta. Perché crediamo solo a quello che vogliamo credere. E così sono fioriti siti e pagine Facebook dove si può leggere la qualunque che in confronto i giornaletti di gossip di Men in Black sono la Treccani.

Il terzo passo è stato farci credere che la cultura, lo studio, l’approfondimento erano “radical chic”. Anziché investire perché tutti potessero goderne, si è cominciato a dire che la cultura era snob, che non ce n’era bisogno. Che un idraulico ne sa più di un ingegnere, e non che l’ingegnere ha bisogno dell’idraulico almeno tanto quanto un idraulico ha bisogno di un ingegnere. La parola “professore” è diventata sinonimo di strafottenza e non di persona da cui attingere conoscenza, persona che per fortuna e capacità ha potuto studiare e da cui io potrei, anzi, pretenderei di imparare.

L’ignoranza è diventata una virtù e non una condizione da cui liberarsi perché estremamente invalidante, perché rende sudditi e manipolabili.

Con un pubblico sempre più ignorante, le case editrici hanno cominciato a stampare solo libri che potevano garantire guadagni e quindi hanno cominciato a fare cassa con autori che già potevano garantire migliaia di followers. Libri leggeri, poco impegnativi, veloci, basati molto sull’empatia e sulla vita vissuta, e molto poco sull’approfondimento, la ricerca, lo studio dei personaggi, della narrazione e della parola. E si è cominciato a pensare che questi libri di intrattenimento, di per sé non sbagliati, potessero bastarci, che fossero la nostra nuova cultura. E invece non sono altro che scambio tra pari: non fanno male ma non aggiungono niente, non ci arricchiscono, non ci elevano.

Insomma, per fare un paragone, hanno cominciato a dirci che il cashmere era da snob e che i golfini in acrilico avevano i colori più belli. Così la gente ha cominciato ad accontentarsi dell’acrilico e si è dimenticata di quanto sia bello il cashmere. Anziché chiedere il cashmere, pretenderlo, lottare per averlo perché è bello e caldo, ha cominciato a odiarlo e ora è disposta a tutto per un golfino in acrilico dai colori sgargianti, ma che puzza dopo dieci minuti e non tiene caldo.

Lo svilimento della cultura, degli intellettuali, degli scrittori.

Secondo me è iniziato da quando sono spariti i correttori di bozze. Quelli che ti fanno le pulci, quelli che leggono parola per parola, che ti segnano anche il doppio spazio, quelli di cui io ho sempre avuto un disperato bisogno.

Ma sì, dove è il problema? Refuso più refuso meno… Forse tutte le dittature sono iniziate così…

 

Come Chiara Ferragni

Ho iniziato quest’estate per noia. Ho un profilo di Instagram da qualche anno ma per un sacco di tempo non ho pubblicato nulla. Non mi è chiaro il funzionamento, non so chi siano i miei contatti, non ho ben chiaro chi io segua… la prima foto fu a capodanno e fu di un cesso. Da allora io su Instagram fotografo solo cessi. Lo spaccio per un progetto artistico alternativo, ma in realtà è perché non so fotografare, non vengo bene in foto e in generale preferisco trastullarmi con le parole piuttosto che con i selfie. Come tutti gli anziani, io mi sento più a mio agio su Facebook. Poi però, quest’estate, grazie a un corso accelerato di Instagram impartitomi dai miei figli mentre mi rompevo le palle davanti al mare della Croazia, scopro le stories. E mi si apre un mondo.

Quello di Chiara Ferragni.

Chiara Ferragni pubblica ogni giorno un numero considerevole di stories: la prima del mattino ci mostra il suo outfit della giornata (this is my look of the day… ), le altre ci mostrano il suo bambino bellissimo (non è ironico, è veramente bellissimo), le sue sorelle, sua madre, i suoi amici (che lei chiama indistintamente“bebe”), il suo guardaroba, la sua borsa, lei fuori a pranzo, poi fuori a cena e infine la giornata che si conclude con Fedez che dorme sul divano. Le sue stories sono quasi tutte in inglese, perché la maggior parte dei suoi followers sono americani, anche se chi commenta le sue foto sono soprattutto italiani. E un sacco di questi la insultano.

Ecco, la cosa fantastica che ho scoperto è che Chiara Ferragni degli insulti semplicemente se ne fotte.

Anzi, risponde e fa gli screen shot solo ai commenti carini, quelli dove le fanno complimenti, le raccontano storie commuoventi e le dicono di come lei sia di inspirazione per loro. E li posta su altre stories, ignorando nel modo più totale chi la insulta, dando l’impressione che gli haters semplicemente non esistano. Ovviamente seguo anche il di lei consorte, Fedez appunto, e la differenza è abissale: lui ci rimane male, si incazza, risponde, fa lunghi video messaggi con le sue ragioni. Con il risultato che gli haters si ringalluzziscono, pensano di avere una dignità, e ci danno dentro, perché sentono di avere colpito.

Chiara Ferragni invece sorride nello specchio dell’ascensore, mostra la sua ultima borsa vintage Gucci e si fa riprendere mentre mostra orgogliosa il trucco e la piega appena fatta. Chiara Ferragni conosce molto bene i social, ci ha costruito sopra un impero, è il suo lavoro. È Instagram che le permette di guadagnare, per cui lo sa usare molto bene e sa bene chi lo frequenta.

E lei li guarda dall’alto, e sorride in quel modo così disarmante che i suoi haters risultano ancora più piccoli e insignificanti di quanto già non possano essere tutti coloro che non hanno proprio niente di meglio da fare che insultarla su Instagram. Lei sorride e conta le visualizzazioni.

Ok, ve lo confesso. A me Chiara Ferragni piace un sacco.