Maledetto Facebook

 

Ho riletto per caso questo articolo:

https://trib.al/rdfvVl0

È vecchio, ma ogni tanto lo ripostano e io lo rileggo. Mi affascina. Mi destabilizza. Mi innervosisce. Lo leggo su Facebook, e questo già la dice lunga.

Per mia fortuna e per spirito di sopravvivenza non sono su Twitter e frequento Instagram solo per seguire i cantanti che mi piacciono, più Fedez e la Ferragni perché ho un’anima perversa.

Mi piacerebbe un sacco riuscire a chiudere con Facebook ma alla fine non ci riesco mai. Lo vorrei fare perché mi avvelena la vita. Ci sono persone che mi stavano simpatiche, legate al mio passato e a ricordi piacevoli, che postano e condividono cose per me assurde, con il risultato che mi ritrovo a detestarle. Non le vedo da vent’anni, non abbiamo più niente in comune, se le incontrassi per strada forse nemmeno ci riconosceremmo. Ma perché allora devono farmi così incazzare? Non sarebbe meglio conservare i bei ricordi e magari godersi un eventuale incontro casuale, sebbene del tutto improbabile, dove il piacere di vedersi e rincontrarsi è sincero?  Ce ne sono altre che ho sempre reputato imbecilli, che su Facebook confermano la loro imbecillità e mi chiedo, perché frequentarle virtualmente quando dal vivo ci evitiamo con soddisfazione reciproca? Per principio non tolgo mai l’amicizia a nessuno, ma diciamo che ho imparato a usare gli strumenti della privacy: non leggo più le pagine delle persone che non mi interessano, così mi evito la tentazione di rispondere o commentare sulle loro pagine, e faccio in modo che i molestatori seriali non leggano sempre quello che posto. È un lavoro che ogni tanto dimentico di fare e regolarmente ne pago le conseguenze.

In molti mi hanno tolto l’”amicizia” virtuale, ma devo confessare che per me è stato un sollievo: hanno fatto quello che io non ho avuto il coraggio di fare, liberandomi.

Mi faccio queste domande ma poi la risposta la so. Non riesco a liberarmi dì Facebook per tre motivi.

1. Lavoro da casa, passo gran parte della mia giornata da sola davanti a un computer. Non ho pausa caffè per due chiacchiere, non origlio le conversazioni altrui sulla metropolitana, non ho nessuno con cui discutere di Salvini, Di maio, del cambio climatico, dei vaccini, di Pillon, dell’olio di palma. Qualcuno con cui scambiarmi ricette o con cui discutere su come smacchiare una tovaglia.

2. Alcuni miei amici di FB condividono articoli ben scritti e ben pensati presi da blog e siti a me sconosciuti ma che poi scopro essere ricchi di informazioni e riflessioni illuminanti. Altri mi fanno scoprire canzoni che non conosco, scrivono cose divertenti o interessanti, altri ancora mi hanno fatto riscoprire la bellezza della poesia, quella goduta per puro piacere e non per motivi di studio o di lavoro. Su facebook ho scoperto movimenti, manifestazioni, eventi che mi hanno scaldato il cuore e ridato speranza.

3. Ho conosciuto o riscoperto persone molto belle. Gente che magari ho incrociato solo di sfuggita nella vita reale e che forse non avrei più visto. Alcune persone postano cose che svelano una parte di loro bellissima, che altrimenti non avrei mai conosciuto.

Ecco, se metto sulla bilancia i pro e i contro mi ritrovo in parità. Sono arrivata alla conclusione che sia come una sostanza stupefacente: ti fa male ma ti fa stare benissimo.

Qualcuno conosce un modo per uscirne?

 

 

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Un nome corto e banale

Attenzione: post ad alto contenuto egocentrico. Per cui se siete insofferenti ai post autoreferenziali o alla mia persona, sappiate che vi capisco. Quindi passate oltre. Vi vorrò bene lo stesso.

Era il 1997. La prima cosa che ho fatto è stato riscontrare un indice dei nomi di un libro di storia. Penso che sia una delle cose più noiose che esista.

Io lo trovai fantastico

Poi mi chiesero di “mettere gli stili”. All’epoca si impaginava con xpress, ma credo che funzioni ancora così: la prima cosa che si fa quando si impagina un libro è importare i testi dai file di word che ti passa l’autore o il redattore e gli si dà “lo stile”, ovvero si assegna la font corretta a ogni parte scritta. I titoli, il testo, le operative, le didascalie, ognuno con la propria font, il corpo e il colore come da progetto grafico. Ecco, mettere gli stili è la parte più noiosa dell’impaginare.

Io lo trovai fantastico

Poi, mi fecero impaginare un libro di matematica. Non so come funzioni ora, ma nel 1997 i programmi per impaginare la matematica erano appannaggio di pochi grafici che spesso erano meri “compositori”. Quindi si impaginava su carta. Il che significava che si fotocopiavano pagine praticamente bianche con segnata solo la griglia della pagina, si prendevano i fogli su cui il compositore aveva appunto “composto” tutto il testo di seguito, in gergo “una strisciata”, si ritagliavano tutti i pezzetti di testo e le figure e si riattaccavano sul foglio della griglia con lo scotch in modo che tutto risultasse armonico e “impaginato”. Poi si rimandava al compositore che eseguiva esattamente il risultato del tuo collage. Insomma, un lavoro certosino, ma che stranamente mi piacque tantissimo.

Il passo successivo fu fare una ricerca iconografica, ovvero cercare le immagini da inserire nei testi. All’epoca gli archivi fotografici on line erano fantascienza, per cui si cercavano le immagini su libri e riviste e poi si mandavano a scansionare da un fotolitista. Sfogliavo libri tutto il giorno alla ricerca di foto impossibili da trovare, combattendo con la costante tentazione di fermarmi a leggere ‘sti benedetti libri.

Infine mi fu concesso di impaginare alcune parti di alcuni testi in Xpress e contemporaneamente redazionarli. Ecco, quello fu proprio esaltante. Imparai che un bravo redattore non si sostituisce all’autore, che ne deve avere rispetto. Che un redattore è a servizio dell’autore e della casa editrice, ponendosi spesso come ponte e mediatore tra le richieste dell’uno e dell’altro. Che deve essere preciso nei riscontri e nella ricerca dei refusi e che è proprio questa, per me, la parte più difficile del lavoro. Imparai che non tutti gli autori hanno rispetto dei redattori, che molti autori non sanno proprio scrivere, ma che sono geniali e hanno belle idee e che questo basta perché siano autori a tutti gli effetti. Imparai a pormi delle domande, a verificare tutto quello che viene scritto, o almeno a provarci. Ho allenato il mio gusto estetico, ho imparato qualche trucchetto, e, soprattutto grazie ai miei innumerevoli errori, ho imparato quello che non va fatto. Ho imparato che un refuso brutto in prima stampa scappa sempre, che dopo 5 giri di bozze potrebbe esserci anche scritto “culo” e tu non lo vedi più. Che un bravo correttore di bozze è preziosissimo.

Dopo tre anni di tutto questo, dopo l’assunzione in una casa editrice, smisi di impaginare, continuai a redazionare, ma il mio lavoro diventò soprattutto quello di “coordinare”, cioè far in modo che autori, grafici, redattori, illustratori lavorassero insieme rispettando dei tempi, seguendo un progetto, rientrando nei costi e verificando che tutto fosse corretto. Un lavoro di mediazione, dove devi conciliare idee e opinioni diverse, dove devi rispondere sì o no a domande che riguardano cose che spesso non sono oggettivamente giuste o sbagliate, per cui ti devi prendere la responsabilità di un filetto rosso, una frase un po’ azzardata, un disegno non proprio corretto ma “non c’è più tempo per correggerlo”. Un lavoro dove ti stressano affinché tu poi a tua volta possa stressare altre persone. Ma scoprii anche che rivedere il lavoro degli altri è molto più facile che farlo, che sembrare “bravi” facendo le pulci alla redazione di altri, ti da una falsa immagine di stessa, ti fa credere di essere “bravissima”. Dopo sei anni così, mi dovetti rassegnare e riconoscere che, benché quel tipo di lavoro mi riuscisse forse anche abbastanza bene, semplicemente non faceva per me. Ero diventata una persona cattiva, frustrata, perennemente incazzata e dalla costante lamentela. Per me erano tutti degli incapaci, io ero vittima di ingiustizie e avevo la sensazione che le mie giornate fossero scandite solo dall’ora della mensa. Quindi, via, dimissioni, partita iva e ritorno alla libertà. Nel frattempo però l’avvento di Indesign e quindi di libri sempre più sofisticati, mi aveva fatto perdere il treno dell’impaginazione, ormai riservata, giustamente, a grafici che avevano studiato per esserlo. E così mi dedicai alla pura redazione e alla ricerca iconografica, con alcune parentesi di coordinamento e una breve fuga delirante nel mondo del digitale.

Poi, esattamente un anno fa, davanti a una macchinetta del caffè, in quel raro momento di pace e serenità che segue per qualche giorno la chiusura dei libri, mentre sondo se c’è lavoro per me per il prossimo anno, alla notizia che un corso non aveva ancora tutti gli autori definiti e un paio di volumi ancora da assegnare, me ne esco con una battuta di quelle che spesso i redattori fanno: “ma te li scrivo io!”. Solo che questa volta il pazzo con cui stavo bevendo il caffè mi ha detto, “ok, fallo”.

Ho passato quattro mesi in biblioteca, ho saccheggiato la fiera del libro per ragazzi di Bologna e le librerie di tutti gli amici con figli dai sette ai nove anni, ho ripreso quaderni dei miei figli, navigato nei siti Internet di maestre di tutta Italia, ho osservato i bambini della scuola dei miei figli e ho fatto domande un po’ a chiunque. Poi mi sono messa al computer e ci ho messo dentro tutto quello che ho imparato in vent’anni di libri, più quello che avevo imparato facendo la supplente, fino a quello che ho studiato all’università e prima ancora alle magistrali. È stato bellissimo. Poi ho dato tutto in pasto alla casa editrice, a un redattore che non ero io e la cosa mi ha dato una strana sensazione. Loro lo hanno lavorato, corretto, impaginato, disegnato. Qualche giorno fa mi hanno fatto vedere la copertina: il mio nome solo soletto, là in alto, sembrava uno pseudonimo, un nome finto di quelli che usano i grafici per fare le prove delle copertine. Corto, banale e poco incisivo. Ci vorranno ancora alcune settimane perché questi due volumi, insieme agli altri del corso scritti da altre persone, potranno prendere il largo ed essere sottoposti al severo giudizio delle insegnanti. Ma quel nome corto e banale su quella bozza di copertina è il mio, e vederlo lì mi ha fatto tenerezza.