Alla fine ho chiamato l’Ale.
Io e l’Ale ci conosciamo da qualche anno. Ci siamo conosciute aspettando i figli all’uscita dalla piscina e poi organizzando feste di fine anno per la scuola elementare. Poi ci sono stati tanti caffè la mattina e alcuni concerti. L’Ale è quella persona generosa e disponibile senza l’aria di esserlo. È quella che si incazza, ma poi, di fronte ai problemi, non si tira indietro. Se c’è da fare, si fa.
E così quando l’altra sera sono entrata in un tunnel di ansia immotivata, l’unica persona che mi è venuta in mente a cui avrei potuto chiedere aiuto, e stata lei. L’Ale.
E pensare che negli ultimi 29 anni di esami come questi ne avrò fatti almeno una ventina, più o meno uno all’anno. Da quell’inverno del 1990 in cui facendomi la doccia scoprii un qualcosa di duro nel mio seno, come un sassolino. Non era niente di serio, si scoprì poi dopo l’intervento. Con la mia incoscienza dei vent’anni non mi preoccupai nemmeno per una frazione di un secondo. Mai. Nemmeno quando durante le visite tutti usavano sempre il condizionale “non dovrebbeessere maligno”. Nemmeno quando mi dissero che era meglio toglierlo. Nemmeno quando uscii dall’ospedale con i tubicini del drenaggio e una fantastica cicatrice che prima delle dimissioni fu contemplata da un nutrito gruppo di specializzandi. Era il 14 febbraio 1991 e avevo vent’anni. Mio fratello mi venne a prendere in macchina all’uscita dell’Istituto dei Tumori e mi accolse con un bel “non sei contenta? Finalmente un San Valentino con qualcuno che ti tocca le tette”. Lo mandai a quel paese, perché in effetti il mio unico problema in quel periodo era il mio amore non corrisposto e la mancanza di un moroso.
Da allora mi dissero di farmi vedere almeno una volta all’anno, e così ho fatto.
Mai preoccupata, mai in ansia.
Poi, per il mio quarantanovesimo compleanno arriva la lettera dello IEO: benvenuta nel protocollo di screening al seno. Presentati il tal giorno alla talora che ti regaliamo una mammografia gratuita. Figata. Nemmeno lo sbatti di farmi fare l’impegnativa e stare al telefono ore per prendere l’appuntamento.
Ma lo Ieo è lontano da casa mia, non ho idea di quale mezzo ci arrivi, e così durante un caffè mattutino l’Ale si offre di accompagnarmi. E io accetto volentieri, perché per la prima volta l’esame mi innervosisce. E andiamo. Faccio tutto, ma a differenza delle altre volte dove la mammografia era immediatamente seguita dal colloquio con lo specialista, mi dicono che l’esito mi arriverà a casa. E di non spaventarmi se mi chiameranno per farmi tornare per una visita perché essendo la mia prima volta allo Ieo e la mia prima volta nel protocollo di screening, di solito preferiscono fare un colloquio. Conoscendo bene il mio seno e la mia cicatrice, anche se sono certa che mi richiameranno, vado a mangiarmi il mio panino serena.
Passano tre settimane e un pomeriggio suona il telefono: “buonasera, la chiamo dallo Ieo. Ha fatto da noi una mammografia e vorremmo fissarle una visita di approfondimento. Può domani alle 17?” Certo che posso, nessun problema.
Ritorno al mio lavoro ma nel mio cervello lentamente cominciano a nascere domande: perché fissano gli appuntamenti un giorno per l’altro? Perché ha parlato di approfondimento? E se ci fosse qualcosa di strano? Cioè, qualcosa di strano c’è da sempre, ma ogni volta poi guardano i vecchi esami e si rilassano. E se poi questa volta fosse diverso? E poi dove sta ‘sto Ieo? Devo impostare il navigatore. Cazzarola, domani pioverà un botto. Quale strada ha fatto l’Ale l’altra volta? Merda, chiacchieravo e non sono stata attenta alla strada.
Ora delle 19 sono in panico. Quando torna a casa il consorte io sono totalmente in ansia, e me ne rendo conto perché lui mi dice “ vuoi che prenda delle ore di permesso per accompagnarti?”. Lui? Che mi propone di accompagnarmi a una visita? Devo essere messa proprio male… Anche perché so che in questi giorni non può assentarsi dal lavoro. No, dai, ce la posso fare.
Ma non è vero. Con quest’ansia, la pioggia e la mia incapacità alla guida rischio di spiaccicarmi o di perdermi per Milano. E se poi mi dicono qualcosa che non voglio sentire? Non voglio andare da sola.
Ma a chi chiedo? Dai, è imbarazzante… Nel mio cervello c’è un solo nome: l’Ale. Però sarebbe la seconda volta… Potrebbe mandarmi a cagare, non è mica il mio taxi… Ma l’Ale è l‘unica che sono certa che se mi accompagna lo fa volentieri, se non può me lo dice. Alla fine, vergognandomi un po’, la chiamo e glielo chiedo. Lei dice che ha già un impegno, ma di darle un’oretta che vede di sistemare.
Il giorno dopo alle quattro è sotto casa mia e salgo sulla sua macchina.
È andato tutto bene: un’ecografia che a me è sembrata durare un’eternità, un bel pippone sull’importanza di farmi vedere tutti gli anni rigorosamente, di fare sia mammografia sia ecografia, ma alla fine finalmente mi dicono che è tutto a posto.
Esco e c’è l’Ale che mi aspetta e mi dice che ho fatto in frettissima.
A me viene da piangere. Mi ha fatto un regalo enorme: avevo bisogno e lei c’era. E io non so come ringraziarla. E dirle che le voglio bene.
Ps: mentre scrivo arriva un messaggio dalla Robi “ti porto a casa io Massi? Sono nei paraggi”. E mi viene in mente anche la Franci, che ormai chiamo la dottoressa “no, non mi disturbi affatto”, che ha chiamato la mia mamma per dirle che i suoi esami vanno bene. Un altro messaggio. È di Clara: “domani ti ci porto io alla cena di Patrizia”. La fortuna di avere delle amiche belle. Perché anche se sono sempre a casa da sola, intorno c’è gente che si prende cura di me. E io di questo sono profondamente grata. Anche perché sanno guidare meglio di me.