Felicità

IMG_6079In questi giorni su Facebook sta girando un gioco: bisogna pubblicare le copertine di dieci libri che si amano, una al giorno per dieci giorni, senza commenti o spiegazioni. È divertente e interessante vedere cosa i tuoi amici pubblicano, vedere quali libri amano. Questo dice molto di noi, dei nostri gusti e della nostra visione della vita. Anche senza spiegazioni.

Io sto giocando, ma c’è un libro che io amo molto ma più per quello che rappresenta piuttosto che per il libro in sé. È Felicità di Katherine Mansfield.

Mi fu regalato il mio ultimo giorno di lavoro come dipendente di RCS, nell’ormai lontano 2006, dal mio direttore.

Lavoravo lì da sei anni e in quegli anni ebbi i miei due primi figli. Ero inquadrata una categoria inferiore rispetto ai mei colleghi perché quando fui assunta arrivavo da uno studio editoriale, quindi con poca esperienza e poca dimistichezza con contratti e inquadramenti. Al momento dell’assunzione mi dissero anche che era la prassi, ma che da lì a un paio d’anni sarei stata equiparata agli altri. Poi però vennero i figli e ovviamente il passaggio di categoria non fu più argomento di discussione.

Il secondo figlio appena nato ebbe qualche problema di salute, e così al mio rientro dalla maternità ottenni a fatica un part time a 6 ore al giorno senza pausa pranzo. Negli accordi sarei dovuta entrare in ufficio alle 9 e uscire alle 15 per 6 mesi, ovviamente con una decurtazione dello stipendio del 30%. In quei sei mesi non sono mai uscita alle 15. Spesso uscivo dopo le 17. I miei colleghi uscivano sempre dopo le 18.30 quando andava bene, altrimenti tiravano anche dopo le 20.

Comunque, scaduti i sei mesi, ripresi il mio orario ma chiesi di essere inquadrata come i miei colleghi. Spiegai che i problemi erano stati risolti e che non avevo mai smesso e svolgevo a tutti gli effetti lo stesso lavoro di chi era con me in redazione. Spiegai che la mia famiglia era ormai formata, che avevo voglia di riprendere il tempo pieno e svolgere al meglio il mio lavoro. Spiegai che avevo il sostegno dei nonni, che i bambini andavano al nido e che non avrebbero limitato in nessun modo il mio lavoro. Mi risposero che dovevo essere contenta di aver avuto due figli, che ero già stata fortunata ad avere ottenuto un part time per sei mesi e che del passaggio di categoria non se ne parlava proprio.

Con la coda tra le gambe tornai in ufficio e ripresi il mio lavoro. Ero arrabbiata ma soprattutto ero arrabbiata di essere arrabbiata per una cosa del genere. Mi trovavo brutta e inacidita: essere inviperita per questioni di soldi e inquadramento non mi piaceva. E che forse il problema non era, in fondo in fondo, quello. In quel periodo cominciarono i prepensionamenti, la gente che andava via non veniva sostituita, il lavoro quindi aumentava, si velocizzava ma soprattutto stava cambiando e come in tutti i periodi segnati da cambiamenti divenne più complesso e faticoso.

Tornavo a casa e mi chiedevo se era quella la vita che volevo: essere un numero su un cedolino, le ore del mio lavoro nient’altro che una parte di un conteggio complessivo, farmi il sangue marcio per questioni di contratto, inquadramento e stipendio. Che io lavorassi bene o no non aveva nessuna importanza: l’importante era consegnare per tempo, fare in modo che grafici, autori e illustratori consegnassero e rispettassero un calendario. E così, dopo alcuni giorni di conti in casa, valutazione dei pro e dei contro, scrissi la mia lettera di dimissioni. Non volevo che il momento più bello della mia giornata fosse la pausa pranzo, non volevo più avere la sensazione che la mia vita ruotasse intorno a un vassoio in mensa. Potevo permettermelo grazie all’aiuto del consorte e lo feci. All’ufficio del personale non sembrò vero trovarsi di fronte una di 35 anni che rassegnava le dimissioni senza chiedere nulla in cambio e vennero accettante senza nemmeno dissimulare un sorriso soddisfatto.

Il giorno dopo venni convocata dal direttore. Cercò in tutti i modi di farmi cambiare idea. Mi disse che stavo sbagliando, che per una donna un posto fisso era prezioso perché garantiva sicurezza economica e indipendenza. Mi disse che i matrimoni finiscono, che fare la free lance significava ansia, pochi soldi e sfruttamento. Mi veniva da ridere: più sfruttata di così, cosa poteva esserci? Mi disse che non sapevo che cosa mi riservasse il futuro, che le cose avrebbero potuto andare male. Gli risposi che per me non aveva senso vivere male perché un giorno sarebbe potuta andare male. Che il problema era proprio il tipo di lavoro: io amavo i libri, mi piaceva metterci le mani, che fare il cane da guardia, alzare la voce, trattare male persone che lavoravano per cifre sempre più basse affinché dessero anche il sangue, non faceva per me. Che non stavo bene, che volevo di più dalla vita. Soprattutto la libertà di scegliere i lavori e i tempi, la libertà di dire di no.

Mi guardò, ci pensò su e poi mi confessò che aveva tentato di tutto con l’ufficio del personale ma che non c’era stato verso di ottenere una contro proposta, se non la possibilità di prolungare il part time. Io non volevo il part time, lavorare tanto non era il mio problema. Prima di congedarmi spese parole molto gentili, dicendo che al piano di sopra non capivano chi stessero perdendo. Le presi come parole di circostanza, pensai che l’adulazione fosse l’ultimo tentativo per trattenermi. Sorrisi e lasciai l’ufficio.

Passarono le settimane di preavviso e poi finalmente arrivò l’ultimo giorno. I colleghi mi fecero un bellissimo regalo, festeggiammo, raccolsi le mie cose e spensi il computer.  Quando ormai stavo per uscire arrivò il direttore con un pacchetto in mano. Ringraziai e lo aprii a casa. Era questo libro.

Mi commossi. Aveva capito. Mi aveva ascoltato. E capii che forse in quei sei anni non ero stata solo un numero.

Quando in questi anni ho avuto momenti di sconforto, quando, come in questi giorni, mi viene un po’ la depressione della casalinga, mi rinchiudo nella mia solitudine, mi sale l’ansia per il mio futuro, l’ansia nel constatare che ogni anno guadagno sempre di meno, che non ho garanzie per quello che farò l’anno prossimo, riguardo la copertina di questo libro e mi ricordo del perché l’ho fatto. E non ho rimpianti.

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