Questa non è stata la prima reclusione della mia vita.
Il 23 gennaio del 2002 mi recai all’ospedale Macedonio Melloni per fare un’ecografia. Ero incinta di cinque mesi e trepidante mi accingevo a quella che viene chiamata “eco morfologica”, praticamente l’eco con cui si controlla che il bambino che hai in pancia abbia tutti i pezzi al posto giusto.
Il bambino, o meglio, la bambina stava benissimo. Anche troppo: si era già messa in posizione pronta per nascere. La ginecologa mi guardò, mi fece qualche domanda sul mio lavoro, sulla mia casa e poi pronunciò la sentenza: “riposo”. Mi fece compilare un po’ fogli, mi diede il numero del medico del lavoro a cui rivolgermi e in sintesi mi disse: “da qui fino a fine maggio devi evitare situazioni stressanti, non fare sforzi e non fare scale. Visto che abiti al terzo piano senza ascensore, te ne stai tranquilla in casa ed esci solo per venire a fare le visite di controllo: niente lavoro, niente uscite per la spesa, niente passeggiate. E visto che così il rischio di ingrassare troppo è alto, eccoti una dieta da 1400 calorie al giorno”.
Uscii dall’ambulatorio felice come una Pasqua: di tutto quello che mi era stato detto io avevo capito solo che la bimba stava bene, che la gravidanza procedeva bene, ma soprattutto che mi mettevano a casa dal lavoro per gravidanza a rischio. Il 23 gennaio. Con il lavoro che facevo all’epoca significava mollare tutto nel pieno del delirio lavorativo, degli orari assurdi e dell’ansia. Il giorno dopo andai in ufficio a comunicare la notizia, a prendere le mie cose e a fare un passaggio di consegne. Chiusi il computer e me ne tornai a casa. Il primo giorno di maternità ricevetti 14 telefonate dall’ufficio, ricordo che le contai, praticamente una ogni mezzora. I giorni successivi via via diminuirono e ben presto mi adattai alla mia nuova vita e loro ad avermi persa.
Stavo benissimo: mia madre passava ogni giorno per darmi una mano, anche se oggi mi chiedo che cosa mai ci fosse da fare in casa visto che vivevamo in due e uno era tutto il girono in ufficio. Eh, bei tempi… la casa praticamente si puliva da sola, nessuno metteva in disordine o comunque era responsabile delle proprie azioni.
Mi feci serenamente tutto febbraio e tutto marzo a casa uscendo solo due volte per le visite di controllo e gli esami del sangue. Poi, con l’arrivo di aprile e della primavera, sentii il richiamo del sole. Complice le festività di Pasqua, accettai di andare a pranzo da alcuni amici: se potevo andare in clinica, pensai, potevo anche andare in casa di altri, non c’era differenza. Sulla via del ritorno però vidi un gande magazzino, uno di quelli che vendono vernici e arredi e, sentendomi benissimo, proposi al consorte di fermarci per comprare una tappezzeria per quella che sarebbe stata la stanza della bimba ma che al momento era ancora un magazzino di scatoloni e altri oggetti che attendevano di finire o in cantina o in discarica.
Ci mettemmo molto poco, sapevamo quello che volevamo, lo scegliemmo in fretta e risalimmo in macchina.
Tempo qualche ora e ovviamente mi partirono le contrazioni.
Al pronto soccorso per fortuna riuscirono a bloccare il travaglio con una bella flebo, mi ricoverarono e dopo una settimana di situazione stazionaria mi dimisero. Questa volta però mi dissero che il riposo doveva essere “assoluto”, cioè “a letto”. Mi dissero che era importante finire almeno l’ottavo mese, il che significava stare a letto come minimo un mese, almeno fino al 6 maggio.
Uscii contenta e ottimista: la bambina stava bene, io potevo farmi servire e riverire, guardare tutta la tv che volevo (all’epoca non c’erano ancora i social network, io non avevo nemmeno il cellulare), leggere e giocare al computer.
Poi, la notte tra il 3 e il 4 maggio, mi si ruppero le acque e alle 5 di mattina del 4 maggio la bambina nacque bella, sana e rompiballe già da allora.
Il 4 maggio. 4 maggio 2002, 4 maggio 2020.
Adesso, come 18 anni fa, mi ritrovo ad attendere con ansia il giorno in cui finalmente succederà qualcosa che non sarà di certo un ritorno alla vita di prima ma un salto nel buio pieno di incertezze.
Guardo questi numeri e mi viene da ridere. 2002-2020.
Lo spirito con cui ho vissuto queste due reclusioni è stato uno l’opposto dell’altro: tanto è stato spensierato, ottimista e un po’ incosciente (ma a dieta) il primo, quanto ansioso, claustrofobico e pessimista (ma all’ingrasso) il secondo. Le ragioni di queste due differenze sono ovviamente chiare a tutti ma mi fanno pensare come una stessa identica condizione possa essere percepita e possa cambiare di significato in base alla situazione in cui è inserita.
E mentre ragiono di tutto ciò, un solo pensiero mi dà sollievo: nel 2200 a essere rinchiusa in casa ci sarà qualcun’altra…