Insonnia

È una cosa orrenda. Te stai lì, al buio e vorresti con tutte le tue forze dormire ma non ce la fai. Ti alzeresti a stirare, lavorare, ma non puoi perché sveglieresti quelli che invece riescono a dormire benissimo.

Il cervello si affolla di pensieri, il cuore comincia ad accellerare e tu vorresti rallentarlo, svuotare la mente ma non ci riesci. Vorresti che il materasso ti inghiottisse, che qualcuno apparisse e ti dicesse “tranquilla, domani si sistema tutto”. Cerchi di attuare quel poco che hai imparato nei pochi mesi di yoga che hai fatto, provi a recitare un rosario, supplicando che qualcuno si prenda questa ansia e se la porti via.

Unico sollievo: scrivere. Ma non puoi scrivere tutto quello che vorresti perché questo blog è pubblico, e come mi hanno fatto notare di recente, io scrivo già fin troppo di me. Mi hanno chiesto “ma non ti mette a disagio far sapere a tutti i fatti tuoi?”. Onestamente? No. Anzi. Mi libera. Però so pormi dei limiti: fin che si parla di me ok, ma se per parlare di me devo parlare di cose di altri, allora mi censuro. E così non posso scrivere tutto tutto quello che vorrei.

So che parlare di ansia è monotono e noioso, eppure questa stramaledetta ha la capacità di prendersi il cervello e focalizzarlo su qualcosa ingigantendo i problemi, rendendoli enormi, insormontabili.

Una volta è il lavoro, una volta i familiari, poi la salute, oppure i guasti in casa o i vicini. Non importa cosa sia: sebbene razionalmente io sappia che a tutto c’è soluzione, il mio cuore e il mio cervello continuano a comportarsi come se io fossi sull’orlo di un baratro.

Invidio tantissimo le persone che sanno rimanere leggere, quelle che non se la prendono, quelle dalla fede incrollabile nella provvidenza, quelle risolute e pratiche, quelle sicure di se, quelle che non sopportano gli ansiosi. Quelle che dormono sonni tranquilli.

Sono andata a letto alle 23.15. Sono le 5.33. Sono sveglia dalle 3. Tra un’ora suona la sveglia.

Tra poco è un altro giorno e sono certa che porterà solo belle cose.

Devo solo convincere di questo cuore e cervello.

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I vecchi libri di scuola

Ho una passione per i vecchi libri di scuola. Ogni tanto me ne capita in mano qualcuno e mi piace da pazzi avventurarmi in linguaggi, immagini e concetti ormai appartenenti al passato. Perché danno una visione abbastanza impietosa del modo di pensare e di educare i bambini e le bambine di allora. Un “allora” che forse ogni tanto qualcuno vorrebbe far tornare.

Oggi mi sono imbattuta in un libro di letture del 1967 che mi è stato regalato da una amica che sta svuotando la casa della sua mamma e ho trovato questo.

Questa fiaba, spesso conosciuta come Riccioli d’oro, a me è sempre piaciuta, perché la protagonista è una bambina monella, sfacciata e comunque libera. Nella storia la bambina viene sempre presentata come disobbediente, stupidina, maleducata, eppure io invidiavo la sua sfrontatezza e il suo coraggio di entrare in una casa sconosciuta e sentirsi perfettamente a suo agio. Così, oggi, sfogliando il libro, quando me la ritrovo qui, modificata e semplificata (è un libro per la seconda elementare) sono un po’ sorpresa, perché alla fin fine il messaggio è: anche le bambine possono essere disobbedienti, possono andare sole nel bosco, possono essere libere. Penso: il libro è del 67, si stava preparando il 68, la visione della “femmina” cominciava a cambiare…

… poi leggo l’operativa in fondo… e intravedo un tentativo degli autori di ridimensionare tutta ‘sta libertà. Leggo e rileggo e mi chiedo: ma perché cavolo nel 1967 le femmine dovevano preferire i ciclamini alle nocciole e ai mirtilli? Però quei tre puntini sospensione mi fanno immaginare maestre illuminate che chiedevano: “ma bambine, è veramente così?”

Sono li che ci ragiono e continuo a sfogliare, quando giro pagina e li trovo! gli immancabili testi sulla mamma e sul papà e tutto torna. Fantastici.

Ogni tanto testi come questi si insinuano ancora nei libri di scuola anche se meno sfacciati, più sottili, così subdoli da sfuggire all’occhio dei redattori. Ma il concetto rimane lo stesso, perché è un concetto che ancora piace molto, al punto da farlo spesso diventare un valore: si comincia dai ciclamini e si arriva a farci credere che pulire la casa e immolarsi per la famiglia sia il massimo della realizzazione e della gioia per una donna e che se sei un uomo il tuo unico scopo nella vita deve essere procacciare cibo per i tuoi figli, e che quella sarà la tua più grande dimostrazione d’amore nei loro confronti.

Ecco, io ogni tanto mi rileggo questi testi, per godere della strada fatta in questi quasi 60 anni, ma anche per prendere consapevolezza di quanta strada ancora è da fare.

BeReal

Primo test: se già dal titolo del post sapete di cosa sto andando a parlare significa che siete sul pezzo o che avete figli tra i 13 e i 22 anni.

BeReal è una app che ogni giorno a un’ora a caso vi invia un messaggio. Appena lo ricevete dovete scattare una foto a quello che avete davanti a voi e in contemporanea il telefono vi scatta un selfie. Le due fotine vengono quindi condivise con la vostra rete di contatti che hanno BeReal e che avete ammesso nel vostro cerchio magico.

Si chiama BeReal perché se la foto viene male e la rifate, i vostri “amici” possono vedere quante volte l’avete rifatta. E, insomma… se la rifate più di due o tre volte fate la figura del BeFake…

Quindi…

Alla fine di quest’estate scopro che i miei figli ce l’hanno, il consorte si esalta e se la scarica, ma subito si rende conto che nessuno dei suoi contatti ha questa nuovissima app. Così passa qualche settimana condividendo con se stesso i suoi BeReal, cercando di pubblicizzarlo con chiunque ma raccogliendo praticamente nessun consenso. Diciamo che sopra i 25 si fa fatica a capirne il senso.

Poi, finalmente, a settembre io cambio il mio vecchissimo smartphone che mi impediva di scaricare qualsiasi cosa e come prima cosa mi scarico Be Real. Faccio le stesse constatazioni del consorte e per un po’ condividiamo solo tra noi due i nostri momenti giornalieri. 

Poi succede che il mio telefono capiti in mano ai tre giovinastri di casa, che scoprano i selfie imbarazzanti delle loro figure genitoriali e che le trovino molto, ma molto “divertenti”, come solo le cose molto, ma molto imbarazzanti possono essere. Quando smettono di ridere, decidono che sì, dare a noi due il loro contatto di BeReal può essere divertente.

E a me si apre un mondo.

Cioè, noi anziane madri con figli ormai liberi per il mondo, passiamo le giornate a immaginarci i nostri pargoli a scuola, in università, fuori con gli amici. Li immaginiamo con gli stereotipi che abbiamo nel nostro cervello, aggiungiamo particolari in base ai piccoli dettagli che cogliamo da conversazioni serali spesso stanche e svogliate, ma raramente riusciamo a immaginarli nel posto esatto in cui sono. Un po’ perché non ci siamo mai stati un po’ perché spesso non abbiamo idea di dove e con chi siano i nostri figli. 

E poi, tutto d’un tratto eccoli lì. BeReal. Le loro facce in aule universitarie, lo spogliatoio della palestra, il compagno di classe inquadrato di sbieco, lo spritz in piazza Leo, la biciletta guidata senza mani ed evidentemente con un cellulare in mano…

Queste piccole finestre sulle loro vite, ormai così tanto loro e così poco mie, sono un piccolo regalo che mi fa sorridere ogni giorno (o arrabbiare: il cellulare in bici senza mani, vi prego, anche no…). Adesso li posso immaginare nel posto giusto, so come sono le loro aule, do un volto a nomi di amici e compagni di corso/classe mai visti, li vedo sorridenti che si godono la loro vita. E questo mi piace un sacco.

Per quanto riguarda me, i miei selfie ogni giorno mi ricordano quanti anni ho e che ho un disperato bisogno di un parrucchiere…

Lunedì, 8.30

Tra pochi giorni chiudo finalmente questo giro dei 51, che non sono stati esattamente “gloriosi”. Mi dispiace perché – chissà poi perché – ho sempre preferito i numeri dispari, ma sinceramente sono felice di chiudere con loro. In questo anno ho visto ospedali, ho fatto visite invasive, mi sono presa spaventi, ho avuto un po’ paura, ma soprattutto mi sono resa conto che è iniziata una fase della vita in cui tutto questo sarà sempre più normale e frequente. Si chiama invecchiare.

Questa primavera l’ansia che mi accompagna ormai da una decina di anni ha sbarellato e così, in perfetto trend milanese, ho fatto la scoperta della psicologa. Quella seria, quella che mi aspetta ogni lunedì alle 8.30. L’inizio, confesso, è stato imbarazzante: che le dico io a questa? Poi, pian piano, ho capito la figaggine di avere una persona che ti ascolta perché è pagata per farlo. Io sono una che parla tanto, spesso troppo, e conosco lo sguardo di chi non ne può più, conosco quella orribile sensazione di quando torni a casa dopo una serata con amici e ti sorge il dubbio di essere stata noiosa, pedante, egocentrica, inadeguata, fuori luogo. Conosco anche il fastidio di quando le persone, raccogliendo i tuoi sfoghi, si prodigano in consigli e parole che ritengono confortanti. Oppure minimizzano con il fastidioso “c’è di peggio” o “sapessi io…”. Capisco che lo fanno perché mi vogliono bene, so benissimo che io sono super fortunata, ma io vorrei solo lamentarmi!

Ecco, la psicologa invece mi ascolta e percepisco che è dalla mia parte. Non fa paragoni con la sua vita o le sua esperienza, non mi da consigli: lei mi fa domande, si interessa a quello che dico, approfondisce le mie parole, lei non taglia corto. Semplicemente quando scatta l’ora, chiude il suo taccuino: non sta smettendo perché non ne può più di me, smette perché è finita l’ora. E se mi ascolta, se approfondisce, se è dalla mia parte è per una semplice ragione: la pago! Quindi niente sensi colpa, niente consigli, niente verifiche “avrò parlato troppo? Sarò stata antipatica? Si sarà stufata di me?” Niente di tutto questo! Ed è una gran liberazione.

Adesso è andata in ferie, ci vedremo a settembre. Mi manca già…

Le paste dure

Supermercato del Monferrato. Entro indossando la mascherina perché a Milano la metto sempre al supermercato e comunque la maggioranza delle persone lì la indossa ancora. Comincio a fare la spesa e mi rendo conto che sono l’unica ad averla. Mi sento un po’ a disagio, ma toglierla adesso mi farebbe sentire ancora più in imbarazzo. Vado al banco del pane. Vorrei prendere il pane che trovo solo qui e che c’era anche al mio matrimonio ma non so come chiamarlo. Per me è il pane a forma fallica, ma fa brutto definirlo così alla commessa. Arriva il mio turno e presa alla sprovvista chiedo il pane a “forma di lumaca”. Spiego che non sono di qui e non so come di chiama. La commessa ride, la signora accanto a me subito ride, poi ci pensa un attimo e con nonchalance indossa la sua mascheriana che aveva in borsa. Il tempo di prendere il mio pane insacchettato e prezzato, mi giro e tutti intorno a me indossano la mascherina.

Il mio marcato accento milanese e il mio dichiarato essere forestiera devono aver seminato il panico… oltre a non sapere che il pane che volevo non erano altro che semplici paste dure e non cazzoni lievitati…

La villetta

Oggi siamo stati in Brianza a fare un giro con il cane. Lo scopo era trovare una pensione dove lasciarlo qualche giorno quest’estate, ma ovviamente non l’abbiamo trovata. Però ci siamo fatti una bella passeggiata tra boschi e campi coltivati, costeggiando ville e villette, alcune bellissime, altre discutibili.

A un certo punto in lontananza abbiamo visto alcune villette a schiera. Erano al limitare del paesello e si affacciavano sui campi. Davanti a una di queste c’era una piscina e si intravedevano delle persone che probabilmente stavano facendo il bagno e prendevano il sole.

Il primo pensiero è stato “beati loro”, poi però mi si è affacciata improvvisa nella mente una visione, come se quella scena fosse un dejavu. È stata una sensazione sgradevole. Ho impiegato qualche minuto per ricostruire e farmi venire in mente che cosa quella villetta mi ricordasse. E poi eccola: mi ricordava una scena del film “Favolacce”. Io non se voi l’avete mai visto… Io ho avuto la malaugurata idea di vederlo durante il lockdown, facendomi ingannare dal fatto che avesse vinto alcuni premi.

Se cercate su Wikipedia la trama, capite di cosa sto parlando, perché praticamente spoilera tutto.

Io però nel 2020 non avevo idea di cosa stavo andando a vedere, convinta che se c’era Elio Germano allora doveva essere un bel film, e sono rimasta per tutta la durata del film a bocca aperta. Quel film mi regalò angoscia in un periodo dove già l’angoscia era oltre i miei limiti di sopportazione.

Il film è ambientato alla periferia di Roma, ma per certi aspetti l’ambiente sociale descritto ricorda moltissimo la Brianza o almeno lo stereotipo che di solito se ne ha.

E oggi, tra campi verdi e villette a schiera, è bastata una piscinetta in lontananza a risvegliare una sensazione di angoscia di cui non sentivo la mancanza…

Accidenti a Elio Germano e ai fratelli d’Innocenzo che ne hanno fatto la regia.

Ricordo che quando finii di vederlo, subito dopo aver pensato “ma perché?” e “ragazzi, anche meno…”, feci un giuramento: mai più vedere un film che vince un qualsiasi premio al festival di Berlino.

Fine anno

Cara/o prof, è un po’ che non ci sentiamo.

Lo so, le lettere dai genitori sono una gran rottura di coglioni ma io stasera non riesco a dormire perché la mia amica ansia è tornata a trovarmi e così ho pensato bene di scriverti.

Vorrei svelarti alcuni segreti che segreti non dovrebbero essere ma ogni tanto mi chiedo se tu li conosca. Eccoli.

1. Insegnare, per chi lo sa fare bene, è difficilissimo. Il problema è che si può anche insegnare male credendo di farlo benissimo. Come capire se sei un bravo insegnante? Dalle insufficienze. Se i tuoi studenti e studentesse sono insufficienti significa che non sai insegnare. E poco importa se li trovi svogliati, annoiati, disinteressati… se non sei capace di trovare la chiave per accendere in loro la curiosità e la voglia di scoprire, non sei un bravo insegnante. Se non capiscono niente, non sei un bravo insegnante. Se solo alcuni ti seguono e sono bravi, non sei un bravo insegnante perché il merito non è tuo: sono bravi di loro.

2. Essere bravi a scuola non significa essere delle belle persone. La scuola dovrebbe essere il primo luogo dove si impara a vivere in una società dove ognuno è responsabile di se e di chi gli sta vicino. Alimentare l’individualismo, giustificando e premiando sempre chi ottiene buoni voti ma poi è incapace di empatia, solidarietà, collaborazione non è insegnare, ma cercare autogratificazione.

3. Se sei un prof delle medie hai una responsabilità enorme perché hai a che fare con tutti soggetti borderline: entrano bambini e possono uscire delinquenti o persone aperte al proprio futuro. Che cosa ne determina la differenza? Un professore o una professoressa che sappia riconoscere le potenzialità di ognuno, le incoraggi e faccia acquisire autostima e voglia di sognare, dando fiducia e indicando traguardi ambiziosi. Che sappia insegnare la bellezza della fatica e dell’impegno per ottenere un risultato. È semplice? No.

4. Un bravo insegnante si riconosce dalla sua capacità di chiedersi “perché”. Perché uno studente si comporta in un certo modo? Perché non studia? Perché disturba? Ti faccio una rivelazione: non sempre è colpa della famiglia. Qualche volta il problema sei proprio tu. Quindi un bravo insegnante si pone dei perché e ha il coraggio di darsi risposte sincere.

5. Insegnare ai bravi sono capaci tutti, anche quelli che insegnano male.

6. Le parole di un/a prof hanno un peso enorme sui ragazzini, forse di più di quelle dei genitori. Pensa bene a quello che dici e come lo dici, soprattutto se è un giudizio. Se dici a un ragazzo/a che non vale niente, che nella vita non concluderà niente, lui/lei ci crederà. Se gli dici che può farcela e che può ottenere risultati anche ambiziosi, ci crederà. Se poi gli dici che gli starai accanto e che lo sosterrai, allora ce la farà.

7. Se chiedi ai ragazzi di prendersi le loro responsabilità, fallo anche tu.

Ecco. Tutto qui.

In questi anni passati alle medie come madre (che grazie a Dio volgono al termine), ho assistito a di tutto e di più, grazie a tre figli ognuno profondamente diverso dall’altro e ho avuto a che fare con un numero consistente di prof. Ho visto cambiare atteggiamento in base a stereotipi e idee preconcette. Ho visto capitale umano sprecato, occasioni sprecate, ingiustizie… ma anche lavori bellissimi, gesti delicati e discreti, attenzioni insperate. Confesso che la mia stima nei confronti dei prof è stata spesso messa a dura prova, ma riconosco che è un mestiere complesso e difficile. E che ognuno ha la propria storia.

Caro/a prof, ti auguro buon lavoro per i prossimi anni, riposati quest’estate e ti auguro a settembre di entrare in classe e guardare quelle facce sedute ai banchi con affetto incondizionato e non con incondizionata rassegnazione.

Etciù

Etciù!

È arrivato così, all’improvviso.
“E tu chi sei?” ho chiesto gentilmente.
“Come chi sono? Come fai a non conoscermi? Io sono Primo Starnuto!”
Mi guarda dall’alto in basso, svolazza nell’aria e si guarda intorno.
Sembra prepotente e antipatico ma mi sto annoiando e vorrei tanto chiacchierare con qualcuno.
“Ciao Primo Starnuto! Io mi chiamo Anna. Piacere di conoscerti.”
“So chi sei!” mi risponde brusco, mentre continua a svolazzarmi intorno.
“Stai cercando qualcosa?”
“Silenzio! Sto valutando.”
Primo starnuto gironzola per la stanza. Guarda i miei libri, sbircia tra i vestiti abbandonati sulla sedia.
Lo lascio fare per un po’, ma sono curiosa.
“Che cosa stai valutando?”
“Se c’è spazio sufficient…”

Etciù!

“Acciderbolina che mega salto!”
Davanti a me ecco un altro starnuto. Questo è grassoccio, arruffato ed è cascato proprio sulla mia mano. Si rialza, si sistema, poi si accorge di me e mi regala un grande sorriso un po’ sdentato.
“Ciao! Tu devi essere Anna! Piacere di conoscerti. Io sono Secondo Starnuto”
“Ciao Secondo Starnuto! Benarrivato!” rispondo sorridendo. Rimaniamo a fissarci per un po’ e ci scappa da ridere.
“Allora? Vogliamo darci una mossa? Io sto per ripartire e non ho tempo da perdere” urla dal fondo stanza Primo Starnuto. Quindi si avvicina e mi fissa con aria severa: “Allora, dove sono i fazzoletti? Mica vorrai tenermi qui ancora per molto… vedi di organizzarti in fretta, perché stanno arrivando i Terribili Gemell…”

Etciù! Etciù! Etciù!

“Ma la volete smettere di spingere! Possibile che ogni volta dobbiate cascarmi addosso?”
Uno sopra l’altro sono rotolati sulla mia maglietta tre starnuti identici.
Sono magrolini, hanno facce arrabbiate e cominciano a spingersi a vicenda. Sembra non si siano accorti della mia presenza.
“Ciao! Io sono Anna” provo a presentarmi. Ma loro continuano a spingersi e a litigare. Li sto fissando quando sento battere sulla mia spalla: “Allora signorina, cosa vogliamo fare? Li vuoi prendere questi fazzoletti o no?”
Mi giro. Primo Starnuto e Secondo Starnuto mi stanno fissando.
“Sì… sì…” balbetto, mentre comincio ad aprire i cassetti alla ricerca dei fazzoletti.
“Trovati!” grido soddisfatta.
“Finalmente…” esclamano i gemelli starnuti, che improvvisamente sembrano essersi accorti me.
“Ma come, ma se siete appena arrivati?”
“Senti, bellezza, tra poco questa stanza sarà stracolma di starnuti. Già stare sempre in tre gemelli appiccicati non è piacevole, figurati condividere un fazzoletto con degli sconosciuti.
“Ok, ok… ecco qua”
Una bella soffiata e via.
Primo Starnuto, Secondo Starnuto e i Terribili Gemelli se ne vanno come sono arrivati.
Poi inizia la festa.

Etciù! Etciù! Etciù! Etciù! Etciù…

Buona notte

Stasera a Milano tira vento. Le tapparelle sbattono e mi agitano. Tutto in realtà mi agita.

Non leggo più i giornali, mi agitano.

I pensieri che mi assalgono prima di dormire mi agitano: gli appuntamenti da prendere, le scadenze, tutte quelle cose che sto rimandando perché mi agitano.

Nel buio sento il cane che dorme e i ragazzi che spengono le luci.

Il giorno finisce, il vicino abbassa le tapparelle ma la vicina non abbassa il volume della Tv.

Sono le undici, ho spento la mia luce mezz’ora fa. Credevo di essermi addormentata e invece la tapparella sbatte, il cane sogna e sospira, il consorte russa delicatamente e io mi ritrovo con il cellulare in mano.

Ma non ho niente da dire.

È solo un altro giorno lento che finisce. Mi piace la lentezza, non mi piace l’agitazione.

La tapparella sbatte, una sirena passa in lontananza.

In attesa di addormentarmi sono passata da qui.

Ma adesso spengo il cellulare e aspetto che venga domani.

Buona notte.

Caro Gesùmba

Caro Gesùmba,
quest’anno per Natale anziché portarmi regali, portami via qualcosa.

Portami via la mia ansia che ogni tanto mi stringe lo stomaco e mi annebbia il cervello.

Portami via il male al ginocchio. Ok, quello lo stai già facendo, ma magari potresti farlo un po’ più velocemente.

Portami via il mio parlare qualche volta a sproposito, la mia necessità di dire sempre quello che penso, le mie urlate di nervosismo, la mia poca pazienza.

Portami via i miei momenti no, quelli durante i quali io starei solo a letto convita che il mondo intero ce l’abbia con me.

Portami via la mia pigrizia, la mia indolenza, il mio rimandare.

Portami via la sensazione di non essere mai altezza, di non essere capace di fare il mio lavoro.

Portami via il senso di colpa per non fare abbastanza per la mia famiglia, per la mia casa, per gli amici, per le persone a cui voglio bene, per quelle che potrebbero aver bisogno di me e che ogni tanto faccio finta di non vedere.

Lasciami un po’ più spensierata, un po’ più di buon umore, sorridente, un po’ più leggera.

Ecco… già che ci sei… portati via anche dieci chili che potrebbe aiutare.

Grazie!
Con affetto.

Anna