Cinquanta

Alla fine li ho compiuti. I cinquanta, intendo.

Ed è andata come volevo. Niente feste, ma tanti auguri. Qualcuno mi ha scritto come avrebbe festeggiato pensando a me e sono stata felice.

Un’amica, ignara che fosse il mio compleanno, mi ha portato fuori a bere un aperitivo. Ce la siamo chiacchierata in un cortiletto di un localino con pareti di plexiglas tra un tavolo e l’altro. La mamma mi ha preparato gnocchi, vitello tonnato e zuppa inglese.

Il giorno dopo la signora che mi pulisce casa mi ha portato una vagonata di spaghetti di soya e riso fatti alla filippina.

La mia famiglia mi ha regalato i biglietti per un concerto il 17 giugno 2021 regalandomi così una prospettiva verso un futuro roseo. Alcune amiche mi hanno comunicato che a settembre mi porteranno via per un we: hanno pensato a cosa gli sarebbe piaciuto fare pensando a me e alla fine hanno deciso di invitarmi! 🙂

Mio fratello mi ha fatto recapitare un mazzo di 50 rose: non avendo un vaso abbastanza grande, le ho suddivise in due vasi, uno con 30 e l’altro con 20.

Ed è stato proprio guardando questi due vasi che ho fatto la pace con questi dannati 50. Li ho guardati da un’altra ottica e ho capito perché non me li sento.

La questione è questa: quando ero bambina pensavo che quando nel 2000 avrei compiuto 30 anni, sarei stata vecchia. E invece a 30 mi sentivo come una ragazzina che ha appena conquistato la propria libertà. Una casa tutta mia, un viaggio in Africa, viaggi in moto. Negli anni successivi l’arrivo dei figli e una vita così piena e così intensa non mi hanno lasciato il tempo nemmeno per fermarmi a pensare che forse ero un po’ stanchina. Tra i 30 e i 40 la mia vita si è rivoluzionata più volte: io, artefice del mio futuro, mi sentivo fortissima.

Poi nel 2010 tutto è crollato. Non ho avuto il tempo, la forza e la lucidità mentale di soffermarmi sul fatto che stessi compiendo 40 anni: troppe cose erano successe nei mesi precedenti e il più bel regalo fu la scoperta degli ansiolitici.

I dieci anni successivi sono rotolati via veloci tra alti e bassi. Non più ingenua, ma nemmeno “vecchia”, ho corso ma mi sono goduta il paesaggio. Gli ansiolitici sono per lo più rimasti sul comodino, ma sono stati pronti a intervenire nel momento del bisogno.

E arriviamo a oggi. In questo 2020 folle e disperato. E io non ci posso credere che da un paio di giorni se mi chiedono quanti anni ho, devo rispondere 50.

Perché io mi sento tanti altri numeri: io sono 23 quando guardo il consorte, io sono 35 quando sono al lavoro, io sono 17 quando spettegolo con le amiche, 16 quando ascolto canzoni strappalacrime, sono 12 quando mi arrabbio e mi offendo, sono 5 quando ho davanti una torta al cioccolato, sono 85 quando penso a tutte le persone che ho incontrato sulla mia strada, quelle a cui ho voluto bene, quelle che ho perso, quelle che ho scoperto, quelle che mi hanno voluto bene, quelle che mi hanno ferito e quelle che ho ferito.

Quindi tanti auguri a me, a questo numero che in fondo non significa niente e allo stesso tempo significa tutto.

Mi guardo allo specchio e appena sopraggiunge lo sconforto difronte al decadimento che vedo riflesso e che nasconde quello che io fui a vent’anni, la saggezza dei 50 corre in mio soccorso: “Goditeli Anna, perché tra dieci anni sarai messa peggio”.

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Elogio del prosecco

Tempo fa in consorte è tornato a casa con alcune bottiglie di prosecco. Era in offerta al supermercato e così ha pensato di prenderne qualche bottiglia nel caso venisse qualcuno a trovarci.

Ma visto che l’occasione non arrivava e che il terrore della vicina mi limitava nell’invitare amici per serate chiacchierine, una sera, mentre cucinavo, ho tirato fuori un calice dall’armadio in alto, quello dei bicchieri “belli”, ho preso delle patatine e l’ho stappato.

E mi si è aperto un mondo.

Ho sempre associato il vino alle serate in compagnia e non mi era mai successo di bere da sola, cosa che ritenevo alquanto triste.

Eppure, quella sera, stanca, di cattivo umore e con zero voglia di cucinare, ho scoperto che un bel bicchiere con del buon prosecco poteva essere un modo per festeggiarmi, per far sembrare speciale una serata normale.

Dopo quella serata ce ne sono state altre, molte condivise con il consorte.

Aprire una bottiglia, girare per la cucina con il bicchiere in mano mentre si apparecchia e si cucina regala una sensazione di festa, una voglia di chiacchierare che spesso mi manca alla fine di giornate dove sono sempre di corsa.

Perché rimanga intatta la sua magia, ho capito che non devo farlo troppo spesso. Non voglio che diventi un’abitudine, ma un regalo che mi concedo di tanto in tanto, per quando me lo merito o per quando non me lo merito per niente e proprio per questo ho bisogno di una carezza, di un piccolo momento di festa.

In questi giorni i prosecchi stappati sono stati tanti e altri mi aspettano. Questi sono ancora più belli, perché condivisi con le persone a cui voglio bene. Mi piace chiacchierare aspettando che la cena sia pronta, con persone che non hanno fretta, che si gustano con me il frizzantino, parlando di massimi sistemi o sparando cazzate ridendo di gusto.

I calici adesso li ho spostati in un posto più comodo.

Se passate da queste parti sappiate che anche se la casa è sottosopra, i bicchieri sono sempre pronti e la bottiglia è sempre in frigo.

Buon fine 2015.

Ai miei amici

Sono consapevole che mi sto inoltrando in un ginepraio, ma ci sono momenti in cui non si può più far finta di niente.

Vorrei quindi ricordare a tutti i miei amici che in queste ore stanno postando sulle loro pagine Facebook immagini di Mussolini, che l’apologia del fascismo in Italia è reato, reato penale. E che, per usare le stesse parole che voi usate nei confronti degli stranieri, queste sono le leggi italiane, e che vi piaccia o no, le leggi italiane vanno rispettate. Perché nascono dalla storia dell’Italia ed è la storia che ci dice che Mussolini è stato un dittatore sanguinario e violento. Che non saranno le opere civili che lui ha fatto nel suo ventennio ad assolverlo, perché sono opere fatte e pagate al caro prezzo della vita di molti e della libertà di tutti, la libertà di poter pensare diversamente, di studiare, di far funzionare il proprio cervello.

Vi conosco da quando eravate bambini e so per certo che voi siete molto più intelligenti e sensibili delle cose atroci che pubblicate.

La libertà di cui voi ora godete non vi è giunta in eredità dal fascismo ma da chi il fascismo lo ha combattuto.

La libertà e la democrazia costano, costano parecchio. Si paga con la paura e il coraggio per sconfiggerla. Oggi si paga confrontandosi con chi la pensa diversamente, con chi ha una religione differente, con chi scappa da paesi in cui quello che è successo a Parigi l’altra notte, si vive ogni giorno. Quindi, vi prego, non siate codardi e non rifugiatevi in un passato che non avete vissuto e che evidentemente non avete capito.

Viviamo in tempi difficili, con nemici subdoli che proprio sulle vostre e sulle mie paure sta facendo leva per renderci deboli e vulnerabili. Vi rende pecore spaventate che pur di scappare sono disposte a seguire chiunque urli o abbai impedendovi di vedere il burrone verso cui vuole condurvi.

Parlate, ragionate, confrontatevi ma vi prego, riproporre il fascismo come soluzione dei problemi è semplicistico, anacronistico e profondamente stupido.

 

Alle mie amiche

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Grazie a Dio ho sempre avuto un sacco di amiche.

Si sono avvicendate nella mia vita costantemente. Ogni fase della mia vita è legata a una di loro. Si, perché io in amicizia sono assolutamente poligama e libera. Ma questo non toglie un grammo del bene che voglio e che ho voluto a ognuna di loro.

La prima che ricordo si chiamava Federica, una passione per Miguel Bosè e una casa al pianterreno nel palazzo di fronte al mio. Facevamo la quinta elementare e ai miei occhi lei era già una donna che conosceva i segreti della vita e dell’amore. E io pendevo dai suoi racconti. Poi io andai alle medie “al di là dei tre ponti”, lei dopo qualche anno traslocò e chissà dove è oggi. Ma da lì non mi sono più fermata.

Ci sono state le amiche conosciute a scuola, quelle agli scout, quelle del tram, quelle dell’università, quelle del parchetto, le mamme del nido, della materna… Qualcuna è rimasta come presenza di sottofondo costante nella mia vita, qualcuna è scomparsa portandosi via tutti i miei segreti confidati nelle lunghe chiacchierate, con qualcuna ho condiviso viaggi in inter-rail, con altre panchine annoiate e assolate.

Se ci penso con qualcuna ho avuto litigate brutte e antipatiche ma con nessuna ho mantenuto del rancore. Qualcuna si è fidanzata con ragazzi che piacevano a me ma con il senno del poi devo essere loro grata per avermi salvata in questo modo da errori madornali. Qualcuna sembrava lo facesse apposta a puntare sempre chi puntavo io, qualcuna invece era veramente innamorata suo malgrado.

Qualcuna l’ho riscoperta a distanza di anni, qualcuna l’ho ridimensionata, qualcuna l’ho sottovalutata, qualcuna l’ho trascurata.

Ho sempre un po’ invidiato, chissà poi perché, le coppie di amiche-amiche, quelle che sembrano quasi sorelle, quelle che crescono insieme, che fanno e che hanno fatto sempre le vacanze insieme, prima da sgarzoline e poi con la prole. Io non ne sono mai stata capace. Tutte le mie amiche hanno altre migliori amiche. E in fondo a me non dispiace affatto. Perché in questo modo so che se cercano me, lo fanno perché hanno voglia di chiacchierare con me veramente, non per abitudine, non per dovere. E questo mi fa sentire libera. Libera di stare da sola quando ne ho voglia, libera di chiamare chi non sento da un po’ sapendo che se non ha voglia di vedermi si sentirà libera di dirmelo.

Non è sempre stato così. Ho sofferto perché mi sono sentita esclusa, giudicata, emarginata, presa in giro, tradita. Come tutti. Non sono mai stata “popolare”, come si usa dire oggi, ma forse è stato un bene. Ho imparato a bastarmi, a trovarmi simpatica, a sorridermi. E così ho cominciato a non farmi paranoie se qualcuna mi evitava o era evidente che la mia presenza la infastidiva. Il mondo grazie a Dio è grande e pieno di gente.

Comunque ogni tanto vorrei dire grazie a tutte queste belle donne che sono le mie amiche. Anche se siamo spesso di opinioni opposte su molte cose, anche se ci trascuriamo per un sacco di tempo, anche se non siamo fedeli, infondo sappiamo capirci. E quando capirsi diventa complesso, sappiamo che è sufficiente un prosecco, una birra, un mojto o uno spritz… Ad ognuna il proprio rimedio, io sono libera…

Ci vediamo alla catena

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Le mie serate prefestive dai 16 ai 21 anni sono state per me legate a una catena.

La “catena” era quella che tra due paletti delimitava l’entrata dei box del mio numero civico. Lì si faceva trovare alle nove chi aveva voglia di uscire. Non c’erano cellulari e così valeva il “chi c’è, c’è”. Una volta lì, partiva il ”dove andiamo?”.
Le serate erano sempre uguali e la destinazione era sempre quella: una birreria. Cambiava solo l’indirizzo e il nome del locale, eppure la scelta poteva richiedere anche più di un’ora di discussione nel tentativo di trovare una meta che accontentasse i desideri di tutti.

Molte volte mi sono ritrovata unica ragazza e, soprattutto i primi anni, spesso ero la più piccola. Così io andavo al traino, a me andava bene tutto purché si uscisse di casa. Sì, perché i miei sabato pomeriggi li ricordo come una noia mortale nell’attesa che arrivassero le fatidiche nove: mi piazzavo davanti alla finestra e appena vedevo apparire i fari di qualche macchina scalcagnata conosciuta mi fiondavo giù.

Non ricordo di essermi mai posta il problema se la mia presenza fosse gradita o meno, non l’ho mai chiesto. Io semplicemente mi presentavo e mi cercavo un posto in macchina. Durante quelle serate io stavo bene: non mi piaceva la birra e così mi prendevo una coca cola, qualche volta un panino, e mi godevo la serata, il più delle volte ad ascoltare discorsi non proprio per signorine. Fondamentalmente si parlava di cagate, e mi divertivo un sacco quando venivo presa un po’ di mira in una gara a dire cose sconce nel tentativo di mettermi in imbarazzo. Ogni tanto appariva la nuova fidanzata di qualcuno. Con queste presenze femminili scambiavo qualche parole ma non ho mai legato veramente. Mi sembrava di essere vissuta sempre con un po’ di diffidenza e non ho mai capito se mi percepissero come una zitella sfigata o una possibile rivale. Ovviamente ai tempi ero convinta di essere una zitella sfigata e pensavo che i miei amici mi portassero in giro solo per fare una buona azione. Comunque io sono sempre stata quella “da sola”.
Ma il sabato sera io ero lì, che gli piacesse o no, io c’ero.

Poi qualcosa cambiò: le fidanzate smisero di essere passeggere, qualcuno cominciò a cercare casa, davanti alla birra i discorsi cominciarono ad essere più difficili, la vita cominciò a portarci su strade diverse, io mi innamorai sul serio e senza nemmeno accorgermene pian piano smisi di controllare se alla catena c’erano due fari accesi.

A quasi 30 anni di distanza, quando trascorro un sabato un po’ noioso in casa e avrei voglia di qualcosa, di un’emozione, di un’attesa ripagata, ogni tanto mi capita di ripensare a quei sabato sera, quelli che davano un senso ai miei weekend. Mi rivedo ragazzina e mi faccio tenerezza. Faccio fatica a pensare che quella ragazzina sono stata io. E con questi pensieri carico l’ennesima lavatrice e penso che forse il Gio ha ragione: domani è meglio se andiamo a camminare in montagna…