Insonnia

È una cosa orrenda. Te stai lì, al buio e vorresti con tutte le tue forze dormire ma non ce la fai. Ti alzeresti a stirare, lavorare, ma non puoi perché sveglieresti quelli che invece riescono a dormire benissimo.

Il cervello si affolla di pensieri, il cuore comincia ad accellerare e tu vorresti rallentarlo, svuotare la mente ma non ci riesci. Vorresti che il materasso ti inghiottisse, che qualcuno apparisse e ti dicesse “tranquilla, domani si sistema tutto”. Cerchi di attuare quel poco che hai imparato nei pochi mesi di yoga che hai fatto, provi a recitare un rosario, supplicando che qualcuno si prenda questa ansia e se la porti via.

Unico sollievo: scrivere. Ma non puoi scrivere tutto quello che vorresti perché questo blog è pubblico, e come mi hanno fatto notare di recente, io scrivo già fin troppo di me. Mi hanno chiesto “ma non ti mette a disagio far sapere a tutti i fatti tuoi?”. Onestamente? No. Anzi. Mi libera. Però so pormi dei limiti: fin che si parla di me ok, ma se per parlare di me devo parlare di cose di altri, allora mi censuro. E così non posso scrivere tutto tutto quello che vorrei.

So che parlare di ansia è monotono e noioso, eppure questa stramaledetta ha la capacità di prendersi il cervello e focalizzarlo su qualcosa ingigantendo i problemi, rendendoli enormi, insormontabili.

Una volta è il lavoro, una volta i familiari, poi la salute, oppure i guasti in casa o i vicini. Non importa cosa sia: sebbene razionalmente io sappia che a tutto c’è soluzione, il mio cuore e il mio cervello continuano a comportarsi come se io fossi sull’orlo di un baratro.

Invidio tantissimo le persone che sanno rimanere leggere, quelle che non se la prendono, quelle dalla fede incrollabile nella provvidenza, quelle risolute e pratiche, quelle sicure di se, quelle che non sopportano gli ansiosi. Quelle che dormono sonni tranquilli.

Sono andata a letto alle 23.15. Sono le 5.33. Sono sveglia dalle 3. Tra un’ora suona la sveglia.

Tra poco è un altro giorno e sono certa che porterà solo belle cose.

Devo solo convincere di questo cuore e cervello.

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I vecchi libri di scuola

Ho una passione per i vecchi libri di scuola. Ogni tanto me ne capita in mano qualcuno e mi piace da pazzi avventurarmi in linguaggi, immagini e concetti ormai appartenenti al passato. Perché danno una visione abbastanza impietosa del modo di pensare e di educare i bambini e le bambine di allora. Un “allora” che forse ogni tanto qualcuno vorrebbe far tornare.

Oggi mi sono imbattuta in un libro di letture del 1967 che mi è stato regalato da una amica che sta svuotando la casa della sua mamma e ho trovato questo.

Questa fiaba, spesso conosciuta come Riccioli d’oro, a me è sempre piaciuta, perché la protagonista è una bambina monella, sfacciata e comunque libera. Nella storia la bambina viene sempre presentata come disobbediente, stupidina, maleducata, eppure io invidiavo la sua sfrontatezza e il suo coraggio di entrare in una casa sconosciuta e sentirsi perfettamente a suo agio. Così, oggi, sfogliando il libro, quando me la ritrovo qui, modificata e semplificata (è un libro per la seconda elementare) sono un po’ sorpresa, perché alla fin fine il messaggio è: anche le bambine possono essere disobbedienti, possono andare sole nel bosco, possono essere libere. Penso: il libro è del 67, si stava preparando il 68, la visione della “femmina” cominciava a cambiare…

… poi leggo l’operativa in fondo… e intravedo un tentativo degli autori di ridimensionare tutta ‘sta libertà. Leggo e rileggo e mi chiedo: ma perché cavolo nel 1967 le femmine dovevano preferire i ciclamini alle nocciole e ai mirtilli? Però quei tre puntini sospensione mi fanno immaginare maestre illuminate che chiedevano: “ma bambine, è veramente così?”

Sono li che ci ragiono e continuo a sfogliare, quando giro pagina e li trovo! gli immancabili testi sulla mamma e sul papà e tutto torna. Fantastici.

Ogni tanto testi come questi si insinuano ancora nei libri di scuola anche se meno sfacciati, più sottili, così subdoli da sfuggire all’occhio dei redattori. Ma il concetto rimane lo stesso, perché è un concetto che ancora piace molto, al punto da farlo spesso diventare un valore: si comincia dai ciclamini e si arriva a farci credere che pulire la casa e immolarsi per la famiglia sia il massimo della realizzazione e della gioia per una donna e che se sei un uomo il tuo unico scopo nella vita deve essere procacciare cibo per i tuoi figli, e che quella sarà la tua più grande dimostrazione d’amore nei loro confronti.

Ecco, io ogni tanto mi rileggo questi testi, per godere della strada fatta in questi quasi 60 anni, ma anche per prendere consapevolezza di quanta strada ancora è da fare.

BeReal

Primo test: se già dal titolo del post sapete di cosa sto andando a parlare significa che siete sul pezzo o che avete figli tra i 13 e i 22 anni.

BeReal è una app che ogni giorno a un’ora a caso vi invia un messaggio. Appena lo ricevete dovete scattare una foto a quello che avete davanti a voi e in contemporanea il telefono vi scatta un selfie. Le due fotine vengono quindi condivise con la vostra rete di contatti che hanno BeReal e che avete ammesso nel vostro cerchio magico.

Si chiama BeReal perché se la foto viene male e la rifate, i vostri “amici” possono vedere quante volte l’avete rifatta. E, insomma… se la rifate più di due o tre volte fate la figura del BeFake…

Quindi…

Alla fine di quest’estate scopro che i miei figli ce l’hanno, il consorte si esalta e se la scarica, ma subito si rende conto che nessuno dei suoi contatti ha questa nuovissima app. Così passa qualche settimana condividendo con se stesso i suoi BeReal, cercando di pubblicizzarlo con chiunque ma raccogliendo praticamente nessun consenso. Diciamo che sopra i 25 si fa fatica a capirne il senso.

Poi, finalmente, a settembre io cambio il mio vecchissimo smartphone che mi impediva di scaricare qualsiasi cosa e come prima cosa mi scarico Be Real. Faccio le stesse constatazioni del consorte e per un po’ condividiamo solo tra noi due i nostri momenti giornalieri. 

Poi succede che il mio telefono capiti in mano ai tre giovinastri di casa, che scoprano i selfie imbarazzanti delle loro figure genitoriali e che le trovino molto, ma molto “divertenti”, come solo le cose molto, ma molto imbarazzanti possono essere. Quando smettono di ridere, decidono che sì, dare a noi due il loro contatto di BeReal può essere divertente.

E a me si apre un mondo.

Cioè, noi anziane madri con figli ormai liberi per il mondo, passiamo le giornate a immaginarci i nostri pargoli a scuola, in università, fuori con gli amici. Li immaginiamo con gli stereotipi che abbiamo nel nostro cervello, aggiungiamo particolari in base ai piccoli dettagli che cogliamo da conversazioni serali spesso stanche e svogliate, ma raramente riusciamo a immaginarli nel posto esatto in cui sono. Un po’ perché non ci siamo mai stati un po’ perché spesso non abbiamo idea di dove e con chi siano i nostri figli. 

E poi, tutto d’un tratto eccoli lì. BeReal. Le loro facce in aule universitarie, lo spogliatoio della palestra, il compagno di classe inquadrato di sbieco, lo spritz in piazza Leo, la biciletta guidata senza mani ed evidentemente con un cellulare in mano…

Queste piccole finestre sulle loro vite, ormai così tanto loro e così poco mie, sono un piccolo regalo che mi fa sorridere ogni giorno (o arrabbiare: il cellulare in bici senza mani, vi prego, anche no…). Adesso li posso immaginare nel posto giusto, so come sono le loro aule, do un volto a nomi di amici e compagni di corso/classe mai visti, li vedo sorridenti che si godono la loro vita. E questo mi piace un sacco.

Per quanto riguarda me, i miei selfie ogni giorno mi ricordano quanti anni ho e che ho un disperato bisogno di un parrucchiere…

Caro Gesùmba

Caro Gesùmba,
quest’anno per Natale anziché portarmi regali, portami via qualcosa.

Portami via la mia ansia che ogni tanto mi stringe lo stomaco e mi annebbia il cervello.

Portami via il male al ginocchio. Ok, quello lo stai già facendo, ma magari potresti farlo un po’ più velocemente.

Portami via il mio parlare qualche volta a sproposito, la mia necessità di dire sempre quello che penso, le mie urlate di nervosismo, la mia poca pazienza.

Portami via i miei momenti no, quelli durante i quali io starei solo a letto convita che il mondo intero ce l’abbia con me.

Portami via la mia pigrizia, la mia indolenza, il mio rimandare.

Portami via la sensazione di non essere mai altezza, di non essere capace di fare il mio lavoro.

Portami via il senso di colpa per non fare abbastanza per la mia famiglia, per la mia casa, per gli amici, per le persone a cui voglio bene, per quelle che potrebbero aver bisogno di me e che ogni tanto faccio finta di non vedere.

Lasciami un po’ più spensierata, un po’ più di buon umore, sorridente, un po’ più leggera.

Ecco… già che ci sei… portati via anche dieci chili che potrebbe aiutare.

Grazie!
Con affetto.

Anna

La macellaia di libri

Per lavoro mi passano tra le mani tantissimi libri per bambini e ragazzi. Frequento molti blog di recensioni di testi e di librerie specializzate e la rivista Andersen ormai è la mia bibbia. 
Il mio modo di leggere questi testi però è purtroppo condizionato dal fatto che devo estrarre brani che abbiano certe caratteristiche e questo spesso mi priva del sano gusto che c’è nel piacere di leggere, esattamente quello che dovrei far incontrare ai bambini e alla bambine che leggeranno e lavoreranno sui libri di cui mi occupo. Facendo un paragone un po’ splatter, il mio lavoro è simile a quello di un macellaio che fa anche il cuoco: prendo qualcosa di grande, ben strutturato e complesso e lo devo tagliare e cucinare perché i bambini e le bambine possano gustarlo. Cerco sempre il filetto, ma qualche volta mi trovo a dover utilizzare le frattaglie, e così devo compensare con l’arte culinaria. Altre volte il filetto è splendido, ma a malincuore devo rinunciarci perché non mi serve, e allora prendo, che so, la lingua, pur consapevole che non sia la parte migliore, perché non voglio rinunciare del tutto a quello splendido esemplare illudendomi di far comunque assaggiare qualcosa di buonissimo.
Qualche volta la ricerca si fa disperata perché proprio non trovo quello che cerco, così abbandono i siti più rinomati e mi butto nell’archivio della biblioteca comunale digitando parole chiave a caso e passando titoli per lo più a me sconosciuti e certe volte vecchissimi. Ed è a quel punto che faccio delle scoperte inaspettate.  
Stasera mi sono trovata tra le mani un libretto pubblicato in Italia per la prima volta nel 1993. Si intitola Lettere dal mare ed è dell’autore francese Chris Donner. Scopro che in Italia è stato ripubblicato nel 2010 e scopro che è famosissimo. Ed è bellissimo. Un prezioso libricino che acquista ancor maggior valore se si pensa sia stato scritto trenta anni fa (l’edizione francese è del 1991). Come ha fatto a sfuggirmi fino ad adesso?
Sono dieci lettere che un ragazzino scrive al fratello grande dal suo soggiorno al mare dove è con la sua famiglia. Perché il fratello grande non è al mare con loro? Perché la mamma non vuole che venga nemmeno nominato? Che cosa ha fatto di così grave?  Lo si scopre pian piano in queste lettere che descrivono con ironia, leggerezza e delicatezza una vacanza iniziata nel peggiore dei modi, ma che avrà un’evoluzione inaspettata. Vi do un indizio: leggerla oggi, dopo le scene vergognose viste in Senato, è stato curativo. Ma allo stesso deprimente. Perché nel 1991 gran parte di quei senatori avevano tra i venti e trent’anni e mi dispiace che di questa delicatezza, ironia e leggerezza ne siano rimasti sprovvisti. Tutti i bambini e le bambine ce l’hanno se gli si insegna a riconoscerla.
Non voglio spoilerare nulla perché, nel caso vi imbatteste in questo libro, anche voi abbiate il mio stesso piacere nel leggerlo, ma vi anticipo che a un certo punto si parla di un muro, un muro destinato a crollare ma che verrà ricostruito. Di solito i muri hanno un valore simbolico negativo, di divisione. Qui invece rappresenta qualcosa che è sì destinato a crollare –  nonostante i tentativi disperati perché questo non avvenga – ma questo crollo sarà benefico solo perché poi il muro verrà ricostruito solido e destinato a durare nel tempo.
Purtroppo di questo libro non potrò utilizzare il filetto, dovrò accontentarmi della lingua, ma spero di riuscire a impiattarla al meglio nella speranza che qualcuno, incuriosito, si vada poi a cercare questo libro, scoprendo così questa piccola perla di affetto, accoglienza e semplicità di cui forse abbiamo tutti un po’ bisogno. 

La frustrazione

Sono passati due mesi dal dannato scoglio e uno dall’intervento.

Cammino per casa come una anziana, il ginocchio ha una forma strana, è sempre un po’ dolorante e per ora se esco preferisco portarmi la mia stampella. Lunedì avrò una visita di controllo che mi dirà se questa convalescenza così lenta è normale o no.

Nel frattempo la vita è ripresa anche se la mia assomiglia molto a quella che avevo durante il lockdown, ovvero lavoro e mangio e dormo.

Sono ingrassata di un paio di chili, sono un po’ depressa ma soprattutto molto frustrata.

Dipendo dalla famiglia per un sacco di cose, soprattutto per andare e venire dalla biblioteca, per me strumento fondamentale per poter lavorare. 

Settimana scorsa mi ha salvata una amica, che mi ha accompagnata e ci siamo fatte quattro chiacchiere. Ma di solito mi ritrovo a supplicare qualche famigliare ad andare a prendere e a restituire i libri.

La mia famiglia ha un non so che di sadico che consiste nella parola “dopo”. Non mi dicono mai di no, ma mi rispondono sempre “va bene, ma dopo”, oppure “va bene, ci vado domani”, “va bene, ma adesso devo studiare”.

E così io mi ritrovo a rinnovare on line prestiti ormai scaduti, segnarmi su foglietti i libri che vorrei prendere, perché se ne possono prenotare solo cinque e se non li ritiri quelli rimangono lì, impedendoti di prenotarne altri.

Quando la frustrazione raggiunge le stelle mi metto a supplicare, offro mance. Ma niente. È sempre “dopo”, “quando torno”, “domani”. Se insisto troppo o mi si altera la voce, mi urlano “ti ho detto che ci vado, ma non adesso”.

Ecco. Io rivoglio solo la mia vita, rivoglio semplicemente ricominciare a guidare e andare in biblioteca quando cazzo voglio e quando cazzo ne ho bisogno.

Poi però il mio pensiero va a chi sta veramente male, a chi basterebbe alzarsi dal letto, a chi veramente dipende in tutto e per tutto da qualcun altro. E non riesco a immaginarmi la frustrazione. E ridimensiono la mia. 

Per cui adesso mi metto il cuore in pace, respiro lentamente, riprendo la calma. Uno qui in casa ha detto che ci va. Adesso però deve andare in bagno. Sono quasi le quattro. La biblioteca chiude alle sei.

Fingers crossed.

(Spero non legga questo mentre è sul water, altrimenti si offende e mi dice che non ci va più)

Il cane gatto

In questa estate 2021 per me disastrosa che finalmente giunge al termine, quello che sicuramente se l’è goduta tutta è stato il cane. Quindici giorni in campagna con i suoceri, libero di scorazzare per il grande giardino in compagnia della cagnolina del cognato, coccolato e accudito con amore.

Ma anche per lui a fine agosto è giunto il momento di tornare a casa. E lì ha trovato me con le stampelle e quindi impossibilitata a portarlo a fare i nostri soliti giri interminabili.

Io non conosco la storia di questo cane, come abbia passato i suoi primi cinque anni di vita. Credo non sia stato maltrattato, è ben educato, e, a parte la fame di libertà e la voglia di correre verso l’infinito e oltre, è proprio un bravo cane.

Però ha cambiato molte case e padroni e secondo me un po’ di diffidenza ad affezionarsi gli è rimasta. Diciamo che con questo rientro a casa ha mostrato un aspetto del suo carattere nuovo, diciamo più utilitaristico, più “gattesco”. Lui mostra affetto a chi lo porta in giro e gli dà da mangiare qualcosa che non siano le sue crocchette.

Per farla breve… Lui, il cane che si finge morto, quello che, come uno stalker provetto, mi seguiva ogni volta che mi alzavo dalla sedia, quello che si accucciava davanti alla porta ogni volta che andavo in bagno, quello che dormiva sotto la mia scrivania, da quando ha capito che non posso più portarlo fuori, non mi considera più. Come un bravo gatto, ha capito che non posso essergli utile e così ora gira per la casa facendosi i fatti suoi, cercando nuovi posticini dove dormire e riservando le feste “canine” solo al consorte quando torna a casa, perché è lui che lo porta in giro mattina e sera ed è l’unico che si azzarda a lasciarlo libero nei prati della periferia milanese.

Durante il giorno il compito di portarlo fuori ormai ricade interamente sui ragazzi e da qualche giorno il pomeriggio lo portano dall’altra nonna, mia madre, quella che è cresciuta in campagna e che ha sempre avuto un rapporto, come dire, “campestre” con gli animali. Quella che non ha mai voluto animali in casa, quella che ha sempre avuto paura dei cani, memore dei cani randagi della sua infanzia, quella che non ha mai voluto gatti, perché nella sua esperienza personale i gatti erano quelli che servivano solo a tenere lontano i topi e che erano sempre alla ricerca di cibo. Tempo fa, mia madre era a casa mia quando la vicina di sotto si mise a urlare in modo particolarmente vivace contro il suo gatto e alla mia domanda “lo starà mica ammazzando?” mia madre mi rispose candida “no, tranquilla, ammazzare un gatto non è così semplice e inoltre farebbe dei versi ben riconoscibili”. Non ho mai voluto approfondire sul come lei facesse a saperlo, ma in effetti ricordo da bambina mia nonna che raccontava cosa succedeva dalle loro parti, sulle rive del Po, ai cuccioli dei gatti quando erano troppi…

Comunque, mia madre ieri mi ha chiamato per dirmi quanto bravo è il mio cane e che è contenta che i ragazzi glielo portino ogni tanto. Mia madre… contenta di avere un cane in giro per casa…

Io invece me ne sto qui con le mie stampelle in attesa che qualcuno decida del futuro del mio ginocchio. Non so quando riuscirò a ritornare per le vie del quartiere con il cane che si finge morto, ma spero solo che avvenga al più presto. Nel frattempo devo studiare un piano di corruzione di cane per ritrovare il mio ruolo di padrona e riconquistare il suo affetto. Perché la storia che “i cani ti amano incondizionatamente” mi sa che è una leggenda…

Cinquanta

Alla fine li ho compiuti. I cinquanta, intendo.

Ed è andata come volevo. Niente feste, ma tanti auguri. Qualcuno mi ha scritto come avrebbe festeggiato pensando a me e sono stata felice.

Un’amica, ignara che fosse il mio compleanno, mi ha portato fuori a bere un aperitivo. Ce la siamo chiacchierata in un cortiletto di un localino con pareti di plexiglas tra un tavolo e l’altro. La mamma mi ha preparato gnocchi, vitello tonnato e zuppa inglese.

Il giorno dopo la signora che mi pulisce casa mi ha portato una vagonata di spaghetti di soya e riso fatti alla filippina.

La mia famiglia mi ha regalato i biglietti per un concerto il 17 giugno 2021 regalandomi così una prospettiva verso un futuro roseo. Alcune amiche mi hanno comunicato che a settembre mi porteranno via per un we: hanno pensato a cosa gli sarebbe piaciuto fare pensando a me e alla fine hanno deciso di invitarmi! 🙂

Mio fratello mi ha fatto recapitare un mazzo di 50 rose: non avendo un vaso abbastanza grande, le ho suddivise in due vasi, uno con 30 e l’altro con 20.

Ed è stato proprio guardando questi due vasi che ho fatto la pace con questi dannati 50. Li ho guardati da un’altra ottica e ho capito perché non me li sento.

La questione è questa: quando ero bambina pensavo che quando nel 2000 avrei compiuto 30 anni, sarei stata vecchia. E invece a 30 mi sentivo come una ragazzina che ha appena conquistato la propria libertà. Una casa tutta mia, un viaggio in Africa, viaggi in moto. Negli anni successivi l’arrivo dei figli e una vita così piena e così intensa non mi hanno lasciato il tempo nemmeno per fermarmi a pensare che forse ero un po’ stanchina. Tra i 30 e i 40 la mia vita si è rivoluzionata più volte: io, artefice del mio futuro, mi sentivo fortissima.

Poi nel 2010 tutto è crollato. Non ho avuto il tempo, la forza e la lucidità mentale di soffermarmi sul fatto che stessi compiendo 40 anni: troppe cose erano successe nei mesi precedenti e il più bel regalo fu la scoperta degli ansiolitici.

I dieci anni successivi sono rotolati via veloci tra alti e bassi. Non più ingenua, ma nemmeno “vecchia”, ho corso ma mi sono goduta il paesaggio. Gli ansiolitici sono per lo più rimasti sul comodino, ma sono stati pronti a intervenire nel momento del bisogno.

E arriviamo a oggi. In questo 2020 folle e disperato. E io non ci posso credere che da un paio di giorni se mi chiedono quanti anni ho, devo rispondere 50.

Perché io mi sento tanti altri numeri: io sono 23 quando guardo il consorte, io sono 35 quando sono al lavoro, io sono 17 quando spettegolo con le amiche, 16 quando ascolto canzoni strappalacrime, sono 12 quando mi arrabbio e mi offendo, sono 5 quando ho davanti una torta al cioccolato, sono 85 quando penso a tutte le persone che ho incontrato sulla mia strada, quelle a cui ho voluto bene, quelle che ho perso, quelle che ho scoperto, quelle che mi hanno voluto bene, quelle che mi hanno ferito e quelle che ho ferito.

Quindi tanti auguri a me, a questo numero che in fondo non significa niente e allo stesso tempo significa tutto.

Mi guardo allo specchio e appena sopraggiunge lo sconforto difronte al decadimento che vedo riflesso e che nasconde quello che io fui a vent’anni, la saggezza dei 50 corre in mio soccorso: “Goditeli Anna, perché tra dieci anni sarai messa peggio”.

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Sigla

Il mio film inizia così.

Primissimo piano su un piede e sulla sbucciatura causata evidentemente dai sandali, che sono gettati sul pavimento e si intravedono. Il primissimo piano si sposta sul viso e indugia su alcuni dettagli: le rughe d’espressione, i pori dilatati, le sopracciglia non fatte a regola d’arte, un occhio chiaramente non truccato, le labbra sottili che si morde.

Ha un orecchino nella parte alta dell’orecchio: non è un vero piercing, e infatti lei se lo toglie con gesto stizzito.

Si alza. L’inquadratura è sempre un primissimo piano sul piede sanguinante che cammina sul parquet. Entrata in bagno. Il dettaglio inquadrato ora sono le mani che aprono una scatola sotto il lavandino: ci sono dentro medicinali alla rinfusa. Le mani cercano creando ulteriore disordine nella scatola. Si soffermano su una scatoletta: è un prodotto per le verruche scaduto nel 2012. Lo guarda, ci pensa un attimo e lo rimette nella scatola. Il primissimo piano delle mani mostra due braccialetti etnici (che nascondono solo in parte una ciste tendinea sul polso) e due anelli nell’anulare sinistra: un anello chiaramente antico, di quelli tipici ereditati dalle nonne, e una fedina blu con brillantino.

Finalmente li trova. I cerotti. Si siede sul water, ne scarta uno e se lo mette a coprire la lesione sul retro del tallone.

“Fanculo”

Si alza. Si guarda allo specchio.

Adesso l’inquadratura mostra tutto il viso in primo piano: cinquantenne, non bellissima, non truccata, con un disperato bisogno di un parrucchiere. Lei si osserva con aria sconsolata. Si fa delle facce. Sorride. Aggrotta la fronte. Si osserva i denti.

“Fanculo”

Adesso sul sottofondo si sentono delle grida provenienti da qualche parte nel condominio: sembrano ragazzi che giocano ai videogiochi o che guardano una partita. Lei chiude gli occhi e conta fino a tre. Al tre si sente un’atra voce, questa volta una voce maschile, di anziano, che urla “Aalloraaaa! Baaaasta! Maleducati”. Lei, contemporaneamente, a occhi chiusi, pronuncia le stesse parole facendone il playback.

Riapre gli occhi, si riguarda allo specchio con aria sconsolata.

“Fanculo”

Sul sottofondo continuano gli schiamazzi e le urla del vicino, ma vanno dissolvendosi lentamente. Lei torna nella sua stanza. Ci sono i sandali gettati sul pavimento, sul letto ci sono dei libri, una borsa e dei plichi di fogli: sembrano bozze. Si siede a una scrivania verde, davanti ha un computer Mac: il video è grande e si intravedono pagine di lavoro. Sembrano libri di scuola, testi per ragazzi e bambini.

La stanza ha le tapparelle abbassate, è chiaramente estate e fa caldo.

Scrive per qualche secondo, poi cancella.

Poi riscrive. Poi si prende la testa tra le mani e, in preda a un attacco di nervoso, emette un verso.

“Fanculo”

Si alza. Va in cucina, apre il frigorifero. È praticamente vuoto. L’inquadratura si sofferma su dei budini al cioccolato. Lei li osserva, ci pensa… ma poi prende un contenitore di vetro con dentro un liquido giallo. Lei lo guarda con disappunto, come se fosse uno di quei contenitore per l’esame delle urine. Trova un bicchiere sul lavandino, se ne versa un po’: “se ha il colore della piscia farà pisciare?”.

Torna in bagno. Si siede sul water, stavolta per fare pipì. Mentre è seduta, tira fuori la bilancia che è difronte a lei. Si alza, si sistema, tira l’acqua, si pesa.

75 chili.

“Fanculo”

Torna alla scrivania. Riprende a scrivere qualcosa. Cancella. Riscrive. Copia. Incolla.
Primissimo piano sulla tastiera Mac: è un continuo di melaX, melaV, melaZ…

Altra crisi di nervoso.

“Fanculo”.

Primo piano sulla barra dei programmi alpiede dello schermo del computer. Il cursore si muove avanti e indietro e alla fine clicca su Safari.

Si apre la schermata e lei va su Facebook. Scorre qualche notizia, si sofferma su qualche foto. Legge qualcosa annoiata, poi chiude.

“Fanculo”

Riclicca sulla barra in alto di Safari e appare la tendina con i siti maggiormente frequentati.

Il primissimo piano si sofferma sull’icona di Netflix. Ci clicca sopra. E appare.

Il film suggerito è “The f**k-it list”.

Sigla.

 

Preparativi

“Che cosa vuoi per il tuo compleanno?” Inizia luglio e puntuale arriva “la domanda”.

E quest’anno è peggio: “è un numero tondo, fai le tue richieste!”

Ecco, come ben sa chi mi conosce, non amo i festeggiamenti, non sono brava con i regali (ne a farli ne a riceverli), non sono brava a organizzare feste, non amo le sorprese.

In fondo io per il mio compleanno vorrei vent’anni di meno, dieci chili di meno, i capelli castani naturale, essere una scrittrice, saper camminare sui tacchi, sapermi truccare, profumare sempre, essere simpatica a tutti. Ma temo non si possa fare.

Quindi, vorrei dirvi: non preoccupatevi, sono felice lo stesso. Poi quest’anno non avrebbe senso: non ci si può abbracciare, non ci si può baciare, non si possono fare feste e assembramenti. Quindi, sereni e liberi tutti.

Fate così: se pensavate di farmi un regalo, spendeteli per voi stessi. Fatevi un regalo, una cosa che desideravate ma a cui poi avete deciso di rinunciare. Un libro, un paio di orecchini, un massaggio, una cena in un bel ristorante, un abbonamento a una rivista, una maglietta, un bonifico a qualche associazione. Il regalo sarà che quando lo comprate pensiate a me e che lo usiate o lo indossiate il giorno del mio compleanno. In questo modo so che mi penserete ovunque voi sarete. E che per un attimo sarete felici a causa mia.

Avete 25 giorni per organizzarvi.

(Quindi Gio, anche se è vero che in un momento di delirio sono stata io a chiedertelo, se sei sempre dell’idea di regalarmi l’aspirapolvere nuovo, puoi comprarlo e il 29 luglio puoi pulire tutta la casa.)