BeReal

Primo test: se già dal titolo del post sapete di cosa sto andando a parlare significa che siete sul pezzo o che avete figli tra i 13 e i 22 anni.

BeReal è una app che ogni giorno a un’ora a caso vi invia un messaggio. Appena lo ricevete dovete scattare una foto a quello che avete davanti a voi e in contemporanea il telefono vi scatta un selfie. Le due fotine vengono quindi condivise con la vostra rete di contatti che hanno BeReal e che avete ammesso nel vostro cerchio magico.

Si chiama BeReal perché se la foto viene male e la rifate, i vostri “amici” possono vedere quante volte l’avete rifatta. E, insomma… se la rifate più di due o tre volte fate la figura del BeFake…

Quindi…

Alla fine di quest’estate scopro che i miei figli ce l’hanno, il consorte si esalta e se la scarica, ma subito si rende conto che nessuno dei suoi contatti ha questa nuovissima app. Così passa qualche settimana condividendo con se stesso i suoi BeReal, cercando di pubblicizzarlo con chiunque ma raccogliendo praticamente nessun consenso. Diciamo che sopra i 25 si fa fatica a capirne il senso.

Poi, finalmente, a settembre io cambio il mio vecchissimo smartphone che mi impediva di scaricare qualsiasi cosa e come prima cosa mi scarico Be Real. Faccio le stesse constatazioni del consorte e per un po’ condividiamo solo tra noi due i nostri momenti giornalieri. 

Poi succede che il mio telefono capiti in mano ai tre giovinastri di casa, che scoprano i selfie imbarazzanti delle loro figure genitoriali e che le trovino molto, ma molto “divertenti”, come solo le cose molto, ma molto imbarazzanti possono essere. Quando smettono di ridere, decidono che sì, dare a noi due il loro contatto di BeReal può essere divertente.

E a me si apre un mondo.

Cioè, noi anziane madri con figli ormai liberi per il mondo, passiamo le giornate a immaginarci i nostri pargoli a scuola, in università, fuori con gli amici. Li immaginiamo con gli stereotipi che abbiamo nel nostro cervello, aggiungiamo particolari in base ai piccoli dettagli che cogliamo da conversazioni serali spesso stanche e svogliate, ma raramente riusciamo a immaginarli nel posto esatto in cui sono. Un po’ perché non ci siamo mai stati un po’ perché spesso non abbiamo idea di dove e con chi siano i nostri figli. 

E poi, tutto d’un tratto eccoli lì. BeReal. Le loro facce in aule universitarie, lo spogliatoio della palestra, il compagno di classe inquadrato di sbieco, lo spritz in piazza Leo, la biciletta guidata senza mani ed evidentemente con un cellulare in mano…

Queste piccole finestre sulle loro vite, ormai così tanto loro e così poco mie, sono un piccolo regalo che mi fa sorridere ogni giorno (o arrabbiare: il cellulare in bici senza mani, vi prego, anche no…). Adesso li posso immaginare nel posto giusto, so come sono le loro aule, do un volto a nomi di amici e compagni di corso/classe mai visti, li vedo sorridenti che si godono la loro vita. E questo mi piace un sacco.

Per quanto riguarda me, i miei selfie ogni giorno mi ricordano quanti anni ho e che ho un disperato bisogno di un parrucchiere…

Pubblicità

La frustrazione

Sono passati due mesi dal dannato scoglio e uno dall’intervento.

Cammino per casa come una anziana, il ginocchio ha una forma strana, è sempre un po’ dolorante e per ora se esco preferisco portarmi la mia stampella. Lunedì avrò una visita di controllo che mi dirà se questa convalescenza così lenta è normale o no.

Nel frattempo la vita è ripresa anche se la mia assomiglia molto a quella che avevo durante il lockdown, ovvero lavoro e mangio e dormo.

Sono ingrassata di un paio di chili, sono un po’ depressa ma soprattutto molto frustrata.

Dipendo dalla famiglia per un sacco di cose, soprattutto per andare e venire dalla biblioteca, per me strumento fondamentale per poter lavorare. 

Settimana scorsa mi ha salvata una amica, che mi ha accompagnata e ci siamo fatte quattro chiacchiere. Ma di solito mi ritrovo a supplicare qualche famigliare ad andare a prendere e a restituire i libri.

La mia famiglia ha un non so che di sadico che consiste nella parola “dopo”. Non mi dicono mai di no, ma mi rispondono sempre “va bene, ma dopo”, oppure “va bene, ci vado domani”, “va bene, ma adesso devo studiare”.

E così io mi ritrovo a rinnovare on line prestiti ormai scaduti, segnarmi su foglietti i libri che vorrei prendere, perché se ne possono prenotare solo cinque e se non li ritiri quelli rimangono lì, impedendoti di prenotarne altri.

Quando la frustrazione raggiunge le stelle mi metto a supplicare, offro mance. Ma niente. È sempre “dopo”, “quando torno”, “domani”. Se insisto troppo o mi si altera la voce, mi urlano “ti ho detto che ci vado, ma non adesso”.

Ecco. Io rivoglio solo la mia vita, rivoglio semplicemente ricominciare a guidare e andare in biblioteca quando cazzo voglio e quando cazzo ne ho bisogno.

Poi però il mio pensiero va a chi sta veramente male, a chi basterebbe alzarsi dal letto, a chi veramente dipende in tutto e per tutto da qualcun altro. E non riesco a immaginarmi la frustrazione. E ridimensiono la mia. 

Per cui adesso mi metto il cuore in pace, respiro lentamente, riprendo la calma. Uno qui in casa ha detto che ci va. Adesso però deve andare in bagno. Sono quasi le quattro. La biblioteca chiude alle sei.

Fingers crossed.

(Spero non legga questo mentre è sul water, altrimenti si offende e mi dice che non ci va più)

Buona festa della mamma

Vorrei che la festa della mamma fosse celebrata in modo diverso.

Se è vero che fare figli è un modo per guardare al futuro, bisogna cominciare a sentirsi tutti responsabili di questi benedetti figli. Non solo le madri.

I figli appartengono a tutti, nel senso che tutti ne siamo responsabili perché sono coloro che ci accudiranno, che andranno avanti dopo di noi.

Perché far ricadere sempre tutto solo sulle madri? Alcune madri sono fantastiche, ma altre sono pessime. Come tutti. Non è solo con i nidi, i sussidi, gli “aiuti” economici che si aiutano le madri, ma condividendo la loro responsabilità, non lasciandole sole ad ascoltare Iva Zanicchi che canta Mamma tutto

Sono “madri” gli insegnanti, gli educatori, gli allenatori, i politici, i negozianti, i medici, i cantanti, gli scrittori, gli ingegneri. Tutti sono responsabili di quello che diventeranno i nostri figli.

E quindi basta con questa retorica della madre santa, eroina votata al sacrificio. Le madri sono semplicemente donne. La festa della mamma dovrebbe essere la festa di tutti coloro che si impegnano a far sì che i bambini crescano liberi, forti, consapevoli, empatici, altruisti, con la mente aperta.

Non sempre sono le madri quelle che asciugano i pianti, quelle che cucinano, quelle che incoraggiano, quelle che accolgono. Capita qualche volta che siano proprio loro quelle che umiliano, limitano, trascurano, non capiscono. Oppure semplicemente vorrebbero essere Mamma tutto, ma proprio non ce la fanno.

Quindi buona festa della mamma a tutti!

2002 -2020

Questa non è stata la prima reclusione della mia vita.

Il 23 gennaio del 2002 mi recai all’ospedale Macedonio Melloni per fare un’ecografia. Ero incinta di cinque mesi e trepidante mi accingevo a quella che viene chiamata “eco morfologica”, praticamente l’eco con cui si controlla che il bambino che hai in pancia abbia tutti i pezzi al posto giusto.

Il bambino, o meglio, la bambina stava benissimo. Anche troppo: si era già messa in posizione pronta per nascere. La ginecologa mi guardò, mi fece qualche domanda sul mio lavoro, sulla mia casa e poi pronunciò la sentenza: “riposo”. Mi fece compilare un po’ fogli, mi diede il numero del medico del lavoro a cui rivolgermi e in sintesi mi disse: “da qui fino a fine maggio devi evitare situazioni stressanti, non fare sforzi e non fare scale. Visto che abiti al terzo piano senza ascensore, te ne stai tranquilla in casa ed esci solo per venire a fare le visite di controllo: niente lavoro, niente uscite per la spesa, niente passeggiate. E visto che così il rischio di ingrassare troppo è alto, eccoti una dieta da 1400 calorie al giorno”.

Uscii dall’ambulatorio felice come una Pasqua: di tutto quello che mi era stato detto io avevo capito solo che la bimba stava bene, che la gravidanza procedeva bene, ma soprattutto che mi mettevano a casa dal lavoro per gravidanza a rischio. Il 23 gennaio. Con il lavoro che facevo all’epoca significava mollare tutto nel pieno del delirio lavorativo, degli orari assurdi e dell’ansia. Il giorno dopo andai in ufficio a comunicare la notizia, a prendere le mie cose e a fare un passaggio di consegne. Chiusi il computer e me ne tornai a casa. Il primo giorno di maternità ricevetti 14 telefonate dall’ufficio, ricordo che le contai, praticamente una ogni mezzora. I giorni successivi via via diminuirono e ben presto mi adattai alla mia nuova vita e loro ad avermi persa.

Stavo benissimo: mia madre passava ogni giorno per darmi una mano, anche se oggi mi chiedo che cosa mai ci fosse da fare in casa visto che vivevamo in due e uno era tutto il girono in ufficio. Eh, bei tempi… la casa praticamente si puliva da sola, nessuno metteva in disordine o comunque era responsabile delle proprie azioni.

Mi feci serenamente tutto febbraio e tutto marzo a casa uscendo solo due volte per le visite di controllo e gli esami del sangue. Poi, con l’arrivo di aprile e della primavera, sentii il richiamo del sole. Complice le festività di Pasqua, accettai di andare a pranzo da alcuni amici: se potevo andare in clinica, pensai, potevo anche andare in casa di altri, non c’era differenza. Sulla via del ritorno però vidi un gande magazzino, uno di quelli che vendono vernici e arredi e, sentendomi benissimo, proposi al consorte di fermarci per comprare una tappezzeria per quella che sarebbe stata la stanza della bimba ma che al momento era ancora un magazzino di scatoloni e altri oggetti che attendevano di finire o in cantina o in discarica.

Ci mettemmo molto poco, sapevamo quello che volevamo, lo scegliemmo in fretta e risalimmo in macchina.

Tempo qualche ora e ovviamente mi partirono le contrazioni.

Al pronto soccorso per fortuna riuscirono a bloccare il travaglio con una bella flebo, mi ricoverarono e dopo una settimana di situazione stazionaria mi dimisero. Questa volta però mi dissero che il riposo doveva essere “assoluto”, cioè “a letto”. Mi dissero che era importante finire almeno l’ottavo mese, il che significava stare a letto come minimo un mese, almeno fino al 6 maggio.

Uscii contenta e ottimista: la bambina stava bene, io potevo farmi servire e riverire, guardare tutta la tv che volevo (all’epoca non c’erano ancora i social network, io non avevo nemmeno il cellulare), leggere e giocare al computer.

Poi, la notte tra il 3 e il 4 maggio, mi si ruppero le acque e alle 5 di mattina del 4 maggio la bambina nacque bella, sana e rompiballe già da allora.

Il 4 maggio. 4 maggio 2002, 4 maggio 2020.

Adesso, come 18 anni fa, mi ritrovo ad attendere con ansia il giorno in cui finalmente succederà qualcosa che non sarà di certo un ritorno alla vita di prima ma un salto nel buio pieno di incertezze.

Guardo questi numeri e mi viene da ridere. 2002-2020.

Lo spirito con cui ho vissuto queste due reclusioni è stato uno l’opposto dell’altro: tanto è stato spensierato, ottimista e un po’ incosciente (ma a dieta) il primo, quanto ansioso, claustrofobico e pessimista (ma all’ingrasso) il secondo. Le ragioni di queste due differenze sono ovviamente chiare a tutti ma mi fanno pensare come una stessa identica condizione possa essere percepita e possa cambiare di significato in base alla situazione in cui è inserita.

E mentre ragiono di tutto ciò, un solo pensiero mi dà sollievo: nel 2200 a essere rinchiusa in casa ci sarà qualcun’altra…

Wikimamma

Siamo a tavola. Oggi la nonna non c’è e così ce la caviamo con un pranzo salutare a base di mozzarella, bresaola, tonno, insalata, pomodorini. E le uova sode, perché non si dica che io non cucino niente. Insomma siamo lì, e tra un “passami il sale” e “prendi l’olio” lui se ne esce con “mamma, ma come funziona la frizione?”

Lo guardo, trattengo l’impulso di rispondere “e io che cazzo ne so” perché sono la mamma, non dico parolacce, devo essere gentile, accudente e devo essere orgogliosa della loro curiosità.

Così cerco nei cassetti del cervello i ricordi di trent’anni fa, quelli della scuola guida e dei quiz, e me ne esco con “serve per staccare il motore mentre cambi la marcia”. Mi guarda perplesso e mi dice “che cavolo significa che stacchi il motore? E cosa succede quando cambi la marcia?”

Ora, gioia della mamma, ma secondo te io che cosa ne so? Alla pratica dell’esame di guida la prima volta mi hanno anche bocciato. Guido da trent’anni, non benissimo, lo ammetto, ma comunque guido senza sapere esattamente che cosa sia la frizione. So che, quando faccio le partenze in salita in montagna, se sento puzza di bruciato significa che la sto uccidendo sta benedetta frizione, ma io di più non so. Sto mangiando un’insalata in busta con una mozzarella industriale e del tonno in scatola greco avanzato da quest’estate. Capisci anche tu che la giornata è già faticosa così.

E lo dico. Il mio solito spazientito “senti, non lo so”.

E mi becco il suo solito “e ma non sai mai niente!”

Ecco, in 17 anni abbondanti della mia esperienza di madre mi sono state rivolte le domande più varie, dalla mitologia greca ai principi della termodinamica. Quanto è distante la Luna? Come funziona Edmodo? Quanti anni aveva John Lennon quando è morto? Quando è caduto il muro di Berlino? Chi ha ucciso Falcone? Che cosa c’è dopo la morte? Chi vince tra un coccodrillo e un orso? Che cosa succede se non mi lavo per un mese?

Tutto bellissimo se non fosse che io ho la pazienza di un milanese che aspetta l’ascensore. E così alla seconda domanda di fila di cui ignoro la risposta o che non capisco proprio, rinnego tutti i miei principi femministi come neanche San Pietro la notte del venerdì santo e cerco di uscirne con un bel “chiedi al papà stasera” di cui sarebbe fierissima Costanza Miriano.

Sì perché “il papà”, lui, è molto più bravo di me. Lui risponde a tutto, sempre, in modo dettagliato ed esaustivo. Perché lui li prende per sfinimento: che sappia o no la risposta, lui parte da Adamo ed Eva e va avanti finché non desistono, e questo avviene spesso prima che lui arrivi al punto. E già, perché la capacità di attenzione di un millennial è di 10 minuti, e così di solito se la cava in fretta. Ed ottiene anche l’effetto desiderato che prima di chiedere a lui ci pensano due volte. E quindi chiedono a me.

Ora, io dico, stellina, hai in tasca un affare che ti basta sfiorare per avere accesso alla treccani, a qualsiasi manuale di fisica, alle news del Vaticano, a tutti i manuali di guida, puoi leggere l’Odissea, la Bibbia, La divina commedia. Ci trovi anche le istruzioni per costruire una bomba, che forma ha la cacca dell’elefante e sapere in tempo reale che tempo fa a Livigno.

Ma perché chiedi a me?

E niente… mi hanno detto che è più bello chiedere alla mamma.

Sono sadici.

Wikimamma.

 

Il sergente Foley

Siamo a novembre e io ho ricominciato il mio giro di colloqui con i professori dei miei figli. Io, la mia ansia, le mie mani sudate e la mia inadeguatezza, prendiamo l’autobus, il tram, il passante e ci sediamo composte in attesa che venga chiamato il mio cognome da sposata.

E mi ritrovo a parlare con professori empatici o anaffettivi, sorridenti o seri, saccenti o umili, confusi o sereni, agitati più di me o calmi come solo il dottor Lecter. Alcuni mi parlano dei miei figli informandomi anche dei loro voti, altri dei loro voti pensando che siano i miei figli.

Da alcuni colloqui esco rigenerata, mi viene voglia di tornare a casa e abbracciare i miei figli e dire loro che sono fortunati ad avere un professore o una professoressa così; da altri esco con la voglia di tornare a casa, abbracciare i miei figli e piangere con loro. Da alcuni professori io vorrei salvarli. E comincio salvando me stessa e mandando il consorte a parlarci. Perché io sono fondamentalmente vigliacca.

Eppure oggi, mentre ero lì che aspettavo tra un prof e l’altro, ho cominciato a pensare che forse i miei figli non hanno nessun bisogno di essere salvati. Che forse sono più forti di quanto io non creda.

Viviamo in tempi difficili, non è certo questo il mondo che io avevo in mente per loro e con molta probabilità dovranno lottare e avere coraggio per far valere le loro idee, per affermarsi, per difendere gli altri, per trovare il loro posto nel mondo.

E mi sono detta che forse il primo passo è questo. Che magari queste difficoltà serviranno a tirare fuori il meglio di loro, a far scoprire loro capacità che magari non pensavano di avere, che gli insuccessi serviranno a non pensare di essere invincibili, che gli serviranno a capire i loro limiti, le loro risorse e le difficoltà degli altri, a renderli più solidali, a scoprire che dopo una caduta ci si rialza, magari un po’ ammaccati, magari non nel modo in cui si voleva, ma ci si rialza.

Che si può sopravvivere al sergente Foley.

Ecco. Ero partita vestendo i panni della madre saggia e mi ritrovo a pensare che dopo una giornata di colloqui, l’unica cosa che vorrei è un divano, una copertina, un tè caldo e una tv con il bel Richard Gere dei tempi d’oro di “Ufficiale e gentiluomo”.

 

Lo sport e la madre

Ho tre figli. E come tutte le madri radical chic di Milano, fin da quando erano piccoli, ho cercato di offrire loro più occasioni possibili perché potessero trovare il “loro” sport. Non ho mai detto di no a qualsiasi loro iniziativa, senza approfondire se l’entusiasmo mostrato a settembre fosse dettato da un reale interesse per lo sport appena scoperto, o la voglia di fare qualcosa con l’amico del momento. A tutti e tre ho solo imposto il nuoto fino a che fossero stati in grado di nuotare in mare lasciandomi serena a riva a leggere un libro. E così è stato.

In questi miei primi sedici anni da madre ho così avuto a che fare, grazie alle iniziative dei tre, con danza classica, ginnastica artistica, il suddetto nuoto, calcio, tennis, scherma, atletica, baseball, basket, canoa e parkur (o qualcosa di simile). La maggior parte di questi sono stati amori fugaci, da una botta e via, giusto il tempo di comprare tutto il necessario, imparare le regole e poi con l’arrivo di maggio, arrivederci e grazie.

Ho avuto a che fare quindi con terra rossa nei calzini, pantaloni bianchi a cui dover togliere strisciate d’erba (non ho mai capito come si possa rendere legali pantaloni bianchi per il baseball… comunque sempre forza Ares!), l’emozione di dover  lavare una maschera da scherma e non sapere da che parte iniziare, vestiti inzuppati di acqua puzzolente dell’Idroscalo, tute di ogni tipo, accappatoi, costumi, cuffie, ciabatte, divise dai tessuti improbabili da lavare facendo attenzione a non rovinare i colori e i patacchini. Ecco… in questo lungo elenco me ne mancava uno… e le madri vere radical chic l’avranno già capito. Stasera, davanti a un sacchetto pieno di fango in cui si intravedevano una maglietta, delle calze e dei pantaloncini avrei voluto piangere. Sì, perché a me solo il rugby mancava…

Agosto

È Agosto.

La partenza si avvicina, fa caldo, tu devi assolutamente finire un lavoro prima di partire. E sei stanca. Stanchissima. Il pensiero delle valige, cosa metterci dentro, della casa da chiudere, il frigo da svuotare, le ultime lavatrici da fare e tutto quello che va fatto prima di partire ti rende ancora più stanca e nervosa.

Ma lotti contro te stessa e ti metti al computer, anche se stamattina hai fatto gli esami del sangue, anche se ti hanno detto che la tiroide comincia a fare i capricci, anche se ti hanno spiegato che forse è per quello che sei sempre stanca, anche se il tuo medico, quello simpaticissimo, ti ha detto che non si può dare sempre la colpa alla tiroide, che la stanchezza, le gambe gonfie, la fatica a concentrarsi è tipico dell’età… Insomma, ti ha dato della vecchia con un sottinteso “è agosto e c’ho caldo, fatti ‘sti esami del sangue e ne riparliamo a settembre con il fresco”.

Nonostante tutti questi “anche se”, ti metti seduta e cerchi di concentrarti. E qui arriva il bello della vita del free lance.

– Mamma devo fare la doccia?

– Mamma, in bagno fa caldo, come faccio a fare la doccia?

– Mamma, che pantaloni mi metto?

– Mamma, metto i vestiti di ieri?

– Mamma, metto questi ma voglio portarli via, me li lavi stanotte?

– Mamma, che cosa stai facendo?

– Mamma, te lo trovo io il testo che non trovi.

– Mamma, mi ricordo un bel pezzo ma non lo trovo…

– Mamma, hai provato a cercare in questo libro, e in quello?

– Mamma, mi sono rotto le palle, arrangiati.

– Mamma, ma quando partiamo?

– Mamma, ma dove andiamo?

– Mamma, cosa devo portarmi?

– Mamma, devo fare i compiti?

– Mamma, non ho voglia di fare i compiti.

– Mamma, perché devo fare i compiti?

– Mamma, cosa stai facendo?

– Mamma, mi sono dimenticato di fare colazione.

E pensare che c’è stato un tempo che sognavo il giorno in cui qualcuno mi avrebbe chiamato “mamma”.

Li ho portati dalla nonna.

Le valigie la farò stanotte.

Buone vacanze.

Vacanza

Le tre iene sono al campo degli scout.

Ormai sono via da quasi una settimana. Agli scout sono vietati i cellulari e la filosofia dei capi è “nessuna nuova, buona nuova”, questo significa che da quando sono partiti l’unica informazione giunta è una mail per dirci che erano arrivati sani e salvi e poi più nulla.

Alcuni genitori soffrono un po’ questo silenzio, invece a me piace un sacco.

Un po’ perché avendolo vissuto io in prima persona, so cosa significa il senso di libertà che si prova a tagliare i ponti con la propria vita per 10 giorni. E poi perché questo rende più bello il giorno del loro rientro. Di solito i grandi non raccontano una mazza e la loro unica preoccupazione è cosa mettersi per la pizzata che di solito segue il rientro, ma mi piace la sensazione che si prova quando ci si rivede dopo tanto tempo, quella loro aria misteriosa con cui mi guardano come per dirmi “tu non puoi capire…”. Il minore invece racconta sempre volentieri, con quella sua ironia che mi fa sempre molto ridere ed è sempre visibilmente e sinceramente felice di rivedermi. Come me di rivedere lui. E fin che dura me la godo tutta.

Quindi io ringrazio gli scout che per 10 giorni disintossicano i grandi dallo smartphone e me dal pensiero di avere sempre sotto controllo tre giovani esseri umani. Stranamente, io notoriamente persona ansiosa, non sono assolutamente in ansia, anzi.

Forse perché non ho quasi mai cenato a casa in questi giorni, ho rivisto amici, fatto aperitivi, passeggiato per il centro, comprato libri alla Feltrinelli, lavorato senza il pensiero di una cena da preparare, qualcuno da recuperare, in pigiama, dimenticandomi orari e appuntamenti, mangiato alle tre davanti a Law and Order insalata e scamorzine?

Sì, lo so, sono una madre di merda. Ma una vacanza ogni tanto ci sta, no?

 

38,5

Avere 38,5 di febbre.

A 3 mesi: tetta, cacca, nanna, piango e poi magari ripiango così torna tetta, cacca, nanna, piango e poi ripiango, così torna tetta, cacca, nanna e poi…

A 3 anni: miiii che mal di testa… adesso chiamo la mamma alle 21.00, alle 22.00, alle 23, 24, 1, 2, 3, 4…. alle 6 sto da dio e mi farei una bella giocata con palla, pentolini, arrampicata del divano, svuota il cassetto delle pentole, degli asciugamani, delle posate, dei detersivi… ma perché la mamma mi guarda male e dice parole che io non conosco?

A 7 anni: figata! Viene la nonna e mi porta topolino, focus junior, il lego nuovo, il dinosauro da costruire, la tour eiffel in 3D, mi fa guardare la TV tutto il giorno, mi cucina pasta in bianco, patate lesse e mela grattugiata! Questa sì che è vita!

A 14 anni: figata! Niente scuola!

A 22 anni: febbre? Cos’è la febbre?

A 35 anni: febbre? Non posso permettermelo: mi prendo tachipirina, tachifludec, nurofen, un infuso di erbe tibetane, fiori di Bach, una bomba a mano e sono un fiore! Posso lavorare, cucinare, mettere in ordine la casa, svegliarmi ogni ora per curare i figli, perché loro sì, poverini, che stanno male.

A 47 anni: vi ho voluto bene. Ricordatemi con affetto.