Un bagno di umiltà

Prosegue il mio cammino da studentessa e sono arrivate le prime difficoltà.

In questa prima parte di corso sugli ambienti digitali che non avevo previsto, sono richieste ogni settimana delle esercitazioni. Le prime due sono andate abbastanza lisce, ma quella di questa settimana per me è stata un po’ complessa. Era richiesto di rivedere una presentazione di PowerPoint già esistente (propria o scaricata da internet) e di correggerla secondo i criteri spiegati a lezione.

Poteva essere svolta in gruppo o singolarmente, ma essendo io senza nessun tipo di rapporto con le altre studentesse, ho ovviamente scelto l’opzione lavoro singolo.

Non avendo io praticamente mai fatto una presentazione in PowerPoint, ne ho scaricata una da un libro di testo della primaria sul testo fantastico (che in effetti poteva anche funzionare già bene), e ho provato a sistemarla in base a quanto mi era stato spiegato a lezione.

Il lavoro valeva massimo 5 punti, me ne sono stati dati 4. Nella correzione che era allegata al voto si diceva che il lavoro era stato svolto secondo le indicazioni date a lezione, ma mi si spiegava che la scelta di alcune immagini che ho aggiunto alla versione originale della presentazione, non era adatta per dei bambini della primaria, che dovevo state attenta ad alcune sviste ortografiche come “innanzi tutto” scritto separato e che avevo usato il femminile riferendomi al termine “font”, mentre il professore a lezione aveva sempre usato il maschile, da ritenersi preferibile.

Ora… io di lavoro spesso faccio la ricerca iconografica per i volumi che redaziono e la critica alle foto mi ha onestamente fatto un po’ rosicare. Poi, facendo un po’ di autoanalisi e un bagno di umiltà, ho cercato di capire il punto di vista di colei che mi ha corretto l’esercitazione. Per calarmi nel ruolo delle insegnanti ho cercato le foto su una piattaforma consigliata dal prof a lezione, perché libera da diritti. Le foto in questa piattaforma sono tremende e non c’è moltissima scelta… Per la mia presentazione dovevo cercare delle immagini che rappresentassero il tempo passato, presente e futuro, e non trovando niente di passabile, ho optato per tre orologi, uno vecchio, uno contemporaneo e uno che sembrava un po’ futuristico. Le foto erano brutte, ma l’idea mi sembrava carina. Chi mi ha corretto il compito non è stato della stessa opinione: la scelta degli orologi non è stata reputata adatta per dei bambini della primaria. Farò tesoro in futuro di questa osservazione, anche se ora temo che penserò per tutta la notte a quali immagini avrei potuto usare.

Per la “svista” dell’innanzitutto, se vogliamo essere fiscali, scrivere “innanzi tutto” separato non è un errore, sono ammesse entrambe le forme, ma va dato atto che la forma unita è più frequente, e poco importa se a me piace di più quella separata.

Ma sulla questione della font, io proprio non ce l’ho fatta. Sapevo bene che a lezione il prof usava il maschile, lui stesso aveva condiviso un link di Treccani che spiegava la differenza tra LA font e IL font. Senza stare qui a fare tutto l’excursus storico, in sintesi, in campo tipografico, e di conseguenza editoriale, si usa il femminile, in campo informatico il maschile. Essendo ormai i processi di produzione editoriale informatizzati, il maschile sta prendendo il sopravvento ed è considerato “preferibile”.

Ora… io sono anziana… è una vita che parlo della font al femminile. Mi rendo conto che questo mi rende boomer, poco al passo con tempi, poco moderna, ma dire IL font mi fa strano quasi come chiamare una linea di autobus a Milano al maschile. Cioè, io non potrei mai chiamare LA 73 al maschile: IL 73 non si può proprio sentire. O al contrario, chiamare al femminile una linea di tram: IL 27 non potrà mai essere LA 27.

Quindi mi prendo in saccoccia questo giudizio impietoso e comincio a pensare che alla fine di questo percorso oltre a non capire ancora niente di “ambienti digitali”, mi sarò convinta che non so più nemmeno fare il mio lavoro, che sono vecchia. E qui ritorna il “ma chi me l’ha fatto fare…”

Comunque, settimana prossima mi aspetta l’ultima lezione con la conseguente esercitazione e poi finalmente, forse, inizia il mio corso di Letteratura per l’infanzia, quello per cui è partito tutto e quello che non vedo l’ora di fare.

A questo punto credo di essere certa che l’esame non lo darò mai.

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Effetti collaterali dell’età

Quando lo scorso autunno mi è saltato un lavoro che avrei dovuto fare tra marzo e maggio e mi sono resa conto che non avrei avuto niente da fare per qualche mese, ho preso coraggio e ho fatto quello che era un sacco di tempo che avrei voluto fare: iscrivermi a un corso di Letteratura per l’infanzia.

Quando mi sono laureata io, non esistevano corsi che trattavano di letteratura per bambini, o almeno non c’erano nella mia facoltà. All’epoca si discuteva se quella per bambini poteva essere considerata letteratura e credo che i primi corsi in università risalgano ai primi anni duemila, quando ormai io avevo già da tempo discusso la mia tesi in tutt’altro campo.

Dopo aver navigato in internet e aver visto i costi e l’impegno che richiedeva un master, ho optato per iscrivermi al corso singolo presso la facoltà di Scienze della formazione primaria alla Bicocca: Letteratura per l’infanzia, corso del secondo semestre del quarto anno. In fondo io sono una autodidatta e forse un master sarebbe stato troppo per me. E poi mi interessava anche capire che cosa viene insegnato alle future maestre, volevo stare con loro, non con studiosi un po’ asettici. Il corso era nel secondo semestre, un periodo perfetto per me, e il costo del tutto ragionevole.

Così, pronti e via, mi sono iscritta.

Oddio… mica tanto pronti e via, perché per capire come fare, come accedere al sito, come inviare la richiesta, insomma tutta la parte burocratica, è stato per me già un primo master. Ed esserci riuscita, un mio primo grande successo.

Comunque, una volta iscritta, scopro che in realtà il corso è diviso in due: il primo mese e mezzo il corso riguarda Ambienti digitali per la formazione ed è tenuto da un prof diverso da quello titolare del corso di letteratura per l’infanzia. Che cosa c’entrano gli ambienti digitali con i libri per bambini mi sfugge tutt’ora, comunque mi son detta “male non può farmi” e via, ho cominciato a frequentare.

In questo primo mese e mezzo di frequentazione di letteratura per l’infanzia neanche l’ombra. Però mi hanno spiegato come valutare una piattaforma digitale di una casa editrice, come mettere le note a un PDF e come fare una presentazione. Considerato che negli ultimi anni sempre più spesso mi è stato chiesto di redazionare direttamente sui PDF usando proprio quegli strumenti di Acrobat che il prof ha spiegato e che dieci anni fa ho assistito alla nascita delle piattaforme digitali delle case editrici e so bene cosa ci sta dietro, diciamo che ho trovato interessante la spiega sulle presentazioni, perché io normalmente non le uso e non mi è stato mai chiesto di prepararne una per lavoro. Però ho anche scoperto programmi e app divertenti, ma soprattutto ho capito bene che cos’è l‘Universal design for learning (UDL) che sta un po’ alla base delle nuove teorie sugli strumenti per l’inclusione, di cui avevo sentito parlare ma che non mi era ben chiaro.

Ogni mattina che ho lezione, prima di partire da casa, mi guardo allo specchio e mi chiedo “ma perché? Ma chi me lo ha fatto fare?”, però poi prendo il passante, attraverso la città e mi metto in ascolto.

Ora… venendo a noi… immaginatevi il mio primo giorno: un’aula universitaria piena di ventenni, nella quasi totalità ragazze. E poi immaginatevi me, una over 50 che entra nell’aula e si siede al suo posticino. Potevo vedere i fumetti dei loro pensieri: “ma chi è sta vecchia?” Essendo un esame del quarto anno, le frequentanti praticamente si conoscono tutte, si salutano affettuosamente, credo abbiamo numerosi gruppi whatsapp e telegram su cui chattano. Per cui un corpo estraneo come me non credo sia passato inosservato. Però nessuno mi ha rivolto la parola, nessuno mi ha chiesto chi fossi, nessuno si è avvicinato. Con mio grande sollievo. Viste le premesse, per evitarmi l’imbarazzo, ho cominciato ad arrivare prestissimo, quando nell’aula non c’è ancora praticamene nessuno. Questo mi evita la levata di sguardi quando apro la porta e mi consente di scegliere il posto che preferisco.

Perché lo faccio?

Quando si supera la mezza età si fanno cose strane. C’è chi va in montagna e si mette a scalare cascate ghiacciate, chi si compra una moto, chi si mette a correre, chi si fa l’amante, chi può permetterselo si compra una casa in montagna da arredare o proprio da ristrutturare.

Credo che alla base ci siano sempre due ragioni: la consapevolezza che non puoi più rimandare quello che avresti sempre voluto fare, e la non rassegnazione al tempo che passa. Perché tu di anni te ne senti sempre 27 e hai bisogno di fare progetti per il futuro, di lavorare per qualcosa, raggiungere degli obiettivi.

Io da sempre subisco il fascino dei libri per l’infanzia e avrei tanto voluto fare la tesi su quelli, ma all’epoca non si usava o comunque i prof a cui la chiesi mi dissero di no. Non era ritenuto un tema interessante, o comunque con prospettive.

Quando chiesi la tesi era il 1993. Le più belle case editrici di albi illustrati avrebbero aperto solo una decina di anni dopo, nei primi anni duemila.

Eppure la libreria dei ragazzi era nata a fine anni settanta, Munari e Rodari si erano già dati un gran da fare, gli “istrici” di Donatella Ziliotto pubblicavano già da anni libri fantastici provenienti dal nord Europa, tra cui la intramontabile Pippi Calzelunghe. Io stessa da bambina avevo avuto libri illustrati bellissimi in cui mi perdevo.

Ricordo che una volta laureata mandai il curriculum a un’infinità di case editrici che più o meno si occupavano di ragazzi. Prima fra tutte Salani. Nessuno mi rispose.

Poi la vita mi portò per caso all’editoria scolastica e andò bene così.

Però questo amore per i libri per bambini, questa sensazione di occasione persa mi è rimasta nel cuore. Quando leggo di editor, direttrici editoriali, studiose di letteratura per l’infanzia che hanno più o meno la mia età, provo una grande invidia. E mi rendo conto come la vita spesso sia fatta di incontri, casi fortuiti, occasioni mancate, treni presi e treni persi.

Negli ultimi anni ho avuto il privilegio di occuparmi come autrice (o come ricercatrice di testi) di libri di lettura per la scuola primaria. Dico un privilegio, perché nelle case editrici sono sempre mal visti i redattori e le redattrici che si mettono a fare gli autori. Si è visti male dai colleghi che ti vedono come uno che non sa stare al proprio posto, uno che si è montato la testa. La casa editrice, dal canto suo, non pubblicizza la cosa, perché c’è la convinzione che avere come autori i propri redattori sia poco prestigioso. Inoltre nel mondo dell’editoria scolastica della primaria si ritiene che gli autori debbano essere insegnanti. Quindi mi sono goduta le occasioni che mi sono state date per mettere nei testi tutto quello che mi piaceva, tutto quello che avrei voluto io da bambina e tutto quello che avrei voluto ci trovassero i miei figli. Mi sono goduta la ricerca e la scoperta di libri che non conoscevo, mi sono informata su siti, riviste di settore. Ho spulciato blog di insegnanti e chiesto ad amici con bambini quali fossero i testi preferiti. E ho capito che c’erano un sacco di cose che non sapevo, ma soprattutto che avevo bisogno di mettere ordine a tutte le cose che avevo imparato. Volevo scoprire come si era evoluta la letteratura per l’infanzia, quali strade aveva percorso in Italia, se gli autori che piacciono a me sono veramente di valore o sono dei ciarlatani. Se io alla fine ci ho capito qualcosa.

Ed ecco allora la mia decisione di iscrivermi al corso. Non so se darò mai l’esame: se ricordarmi nomi e date era complesso per me a vent’anni, adesso è praticamente una impresa impossibile. E poi, siamo onesti: superare un esame a questo punto della mia vita, a me non servirebbe a nulla. Alla mia età potrebbe farmi curriculum solo se il corso lo tenessi io, non certo se lo frequento con delle ventenni…

Per cui eccomi qui. Mi godo lo studio come puro piacere.

Essendo iscritta come studentessa alla Bicocca, ho scoperto di avere accesso ai materiali digitali anche di altri corsi passati del corso di laurea di scienze della formazione primaria, e così mentre cucino o stiro mi guardo le vecchie videolezioni di Didattica della letteratura fatte ancora in epoca di covid dallo stesso prof che dal mese prossimo finalmente inizierà le lezioni di Letteratura per l’infanzia. Quanta bellezza…

Come mi piacerebbe tornare indietro e reinventarmi la vita. Come invidio questo docente che passa le sue giornate a studiare libri per l’infanzia, a rivoltarli come calzini, a cercare connessioni e punti di rottura. E poi parlare a un pubblico adorante, che nolente o dolente pende dalle sue labbra perché è da quelle che dipende il voto sul loro libretto digitale. E poi le conferenze, i dibattiti. Un microfono in mano per far sapere a tutti quanto sei intelligente, arguto, colto. Spari la tua teoria e via. Che bella vita deve essere quella del docente universitario…

E invece no. Io faccio la redattrice, con velleità da autrice ma non sono un’insegnante e questo distrugge le mie velleità. Continuerò a fare la redattrice, se il lavoro arriverà, perché intendiamoci, il mio lavoro mi piace sempre un sacco. Però nel frattempo mi godo queste lezioni, fingo di avere vent’anni, mi lascio guidare dalla voce di un prof videoregistrato e mi cullo tra testi bellissimi mentre immagino una vita che non è stata la mia.

Forse anche questo è un effetto collaterale dell’età.

 

Cinquanta

Alla fine li ho compiuti. I cinquanta, intendo.

Ed è andata come volevo. Niente feste, ma tanti auguri. Qualcuno mi ha scritto come avrebbe festeggiato pensando a me e sono stata felice.

Un’amica, ignara che fosse il mio compleanno, mi ha portato fuori a bere un aperitivo. Ce la siamo chiacchierata in un cortiletto di un localino con pareti di plexiglas tra un tavolo e l’altro. La mamma mi ha preparato gnocchi, vitello tonnato e zuppa inglese.

Il giorno dopo la signora che mi pulisce casa mi ha portato una vagonata di spaghetti di soya e riso fatti alla filippina.

La mia famiglia mi ha regalato i biglietti per un concerto il 17 giugno 2021 regalandomi così una prospettiva verso un futuro roseo. Alcune amiche mi hanno comunicato che a settembre mi porteranno via per un we: hanno pensato a cosa gli sarebbe piaciuto fare pensando a me e alla fine hanno deciso di invitarmi! 🙂

Mio fratello mi ha fatto recapitare un mazzo di 50 rose: non avendo un vaso abbastanza grande, le ho suddivise in due vasi, uno con 30 e l’altro con 20.

Ed è stato proprio guardando questi due vasi che ho fatto la pace con questi dannati 50. Li ho guardati da un’altra ottica e ho capito perché non me li sento.

La questione è questa: quando ero bambina pensavo che quando nel 2000 avrei compiuto 30 anni, sarei stata vecchia. E invece a 30 mi sentivo come una ragazzina che ha appena conquistato la propria libertà. Una casa tutta mia, un viaggio in Africa, viaggi in moto. Negli anni successivi l’arrivo dei figli e una vita così piena e così intensa non mi hanno lasciato il tempo nemmeno per fermarmi a pensare che forse ero un po’ stanchina. Tra i 30 e i 40 la mia vita si è rivoluzionata più volte: io, artefice del mio futuro, mi sentivo fortissima.

Poi nel 2010 tutto è crollato. Non ho avuto il tempo, la forza e la lucidità mentale di soffermarmi sul fatto che stessi compiendo 40 anni: troppe cose erano successe nei mesi precedenti e il più bel regalo fu la scoperta degli ansiolitici.

I dieci anni successivi sono rotolati via veloci tra alti e bassi. Non più ingenua, ma nemmeno “vecchia”, ho corso ma mi sono goduta il paesaggio. Gli ansiolitici sono per lo più rimasti sul comodino, ma sono stati pronti a intervenire nel momento del bisogno.

E arriviamo a oggi. In questo 2020 folle e disperato. E io non ci posso credere che da un paio di giorni se mi chiedono quanti anni ho, devo rispondere 50.

Perché io mi sento tanti altri numeri: io sono 23 quando guardo il consorte, io sono 35 quando sono al lavoro, io sono 17 quando spettegolo con le amiche, 16 quando ascolto canzoni strappalacrime, sono 12 quando mi arrabbio e mi offendo, sono 5 quando ho davanti una torta al cioccolato, sono 85 quando penso a tutte le persone che ho incontrato sulla mia strada, quelle a cui ho voluto bene, quelle che ho perso, quelle che ho scoperto, quelle che mi hanno voluto bene, quelle che mi hanno ferito e quelle che ho ferito.

Quindi tanti auguri a me, a questo numero che in fondo non significa niente e allo stesso tempo significa tutto.

Mi guardo allo specchio e appena sopraggiunge lo sconforto difronte al decadimento che vedo riflesso e che nasconde quello che io fui a vent’anni, la saggezza dei 50 corre in mio soccorso: “Goditeli Anna, perché tra dieci anni sarai messa peggio”.

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Vorrei solo uscire a comprarmi un gelato

Volete la verità? Eccola: io non ne posso più!

I ragazzi, gli anziani, i bambini… Ecco, io oggi penso solo a me e non ne posso più.

Ho la claustrofobia, l’ansia e la depressione.

Sono preoccupata per il mio lavoro, che già negli ultimi anni stava andando un po’ a schifio ma con questo credo che avrò la botta finale.

Quest’estate compio cinquant’anni e già di per se non è esaltante, ma adesso è proprio devastante.

Mi dicono che i ragazzi soffrono, che gli anziani soffrono, che i bambini soffrono. Sappiatelo: anche le quasi cinquantenni soffrono. Soprattutto quelle con un senso del dovere eccessivo come me. Mi hanno detto stai a casa? Ecco, io ci sto veramente. Non riesco a trasgredire, è più forte di me. Non ho nessuna scusa per uscire. Ormai anche la mia mamma si arrangia, perché mi hanno fatto terrore con le possibili multe. Ma fare la spesa e portare le medicine alla propria mamma è un buon motivo per uscire? Non si sa. Da quello che ho capito sta nel buon cuore del vigile o del carabiniere che ti ferma. E io con il buoncuore di vigili e carabinieri sono sempre stata un po’ sfortunata e visto che non posso permettermi 500 euro di multa e che per andare da lei la possibilità di un posto di blocco è alta, le ho detto “fai la spesa online e chiama i ragazzi volontari del quartiere per le medicine”. Ogni spesa on line per lei è un’arrampicata sull’Everest, ma ce l’ha fatta già due volte. Insomma, si arrangia.

Io no.

È che mi sento inutile.

Volete la verità: io avevo due lussi nella mia vita, due soli cazzuti lussi. Il primo non lo dico perché è un segreto e questo un luogo pubblico, ma tanto ormai è un antico ricordo. Il secondo lusso era una signora che mi puliva casa in teoria due volte a settimana, in pratica quando e quanto voleva lei. Ma il lusso consisteva proprio in questo: non me ne fregava niente di quando e quanto venisse, mi bastava che ci fosse. Lei era l’unica che si prendeva cura di me pulendo i bagni al posto mio, passando l’aspirapolvere al posto mio e rendendo la mia casa almeno vivibile. Era l’unica che non mi chiedeva che cosa dovesse fare, ma lo faceva e basta. Il lusso era pagarla a fine mese senza verificare quante ore avesse fatto realmente, ma avendo l’illusione che lei avesse tutta la situazione sotto controllo. Lei mi diceva quando finivano i detersivi, quando cambiare le lenzuola, ma soprattutto, mi regalava una casa in ordine per un’ora due volte alla settimana. Poi tornavano a casa tutti e la magia svaniva. Ma io l’avevo vista, la magia.

Ecco, adesso siamo sempre a casa tutti e lei non c’è. La magia adesso dura solo qualche secondo e tocca farla a me o infilarmi in discussioni per ottenere il minimo sindacale o, nel migliore dei casi, mettermi i panni del generale e dare ordini e compiti. Vi dico un altro segreto: io odio avere la situazione sotto controllo, odio dare ordini. Io credo nel buoncuore della gente, nella loro capacità di comprendere autonomamente quello che c’è bisogno di fare e che lo facciano.

Capite bene che per una persona come me questo è proprio un periodaccio…

Io invidio le donne e gli uomini di carattere, quelle e quelli che in questi giorni hanno svuotato e pulito armadi, tapparelle, anfratti e fughe delle piastrelle. Io mi sento eroica solo per aver lavato le tende e i vetri e aver svuotato totalmente la cesta delle cose da stirare… Io invidio quelle e quelli che fanno ginnastica, che cuciono mascherine, che hanno suddiviso i compiti casalinghi tra figli e consorte, che hanno trovato fornitori di frutta, carne, pasta a chilometro zero e che fanno ordini online come se non ci fosse un domani sostenendo le piccole imprese e allo stesso tempo mangiando sano e biologico. Quelle e quelli che sanno la differenza tra cavolo nero, cavolo cappuccio e cavolo rosso. E che li sanno cucinare. Quelle e quelli che sono riusciti a farsi la pasta madre in casa. Quelle che si truccano e che si mettono il reggiseno tutti i giorni.

Io invidio proprio tutti: quelle e quelli che lavorano fuori casa, perché eroicamente fanno la loro parte. Quelle e quelli che stanno salvando il mondo, quelli che stanno sperimentando nuove strade. Quelle e quelli che lavorano da casa, ma che hanno conferenze, call e le giornate piene e che vivono questa nuova dimensione smartworking come atto eroico. Ieri ho invidiato perfino il tizio che mi ha portato la spesa a casa.

Io continuo a fare quello che ho sempre fatto: lavoro da casa, non c’è niente di nuovo per me, niente di eroico. Quello che prima mi sembrava un privilegio, adesso non lo è più. Il mio privilegio era la mia libertà, che pagavo con il prezzo dell’incertezza della precarietà.

Ora mi è rimasta solo l’incertezza e la precarietà. E i cinquant’anni che incombono.

Però al momento stiamo tutti bene. E lo so che di questi tempi a Milano questo è già tanto. Dovrei essere grata. E invece mi sento dietro una grata.

Vorrei solo uscire a comprarmi un gelato.

 

Un nome corto e banale

Attenzione: post ad alto contenuto egocentrico. Per cui se siete insofferenti ai post autoreferenziali o alla mia persona, sappiate che vi capisco. Quindi passate oltre. Vi vorrò bene lo stesso.

Era il 1997. La prima cosa che ho fatto è stato riscontrare un indice dei nomi di un libro di storia. Penso che sia una delle cose più noiose che esista.

Io lo trovai fantastico

Poi mi chiesero di “mettere gli stili”. All’epoca si impaginava con xpress, ma credo che funzioni ancora così: la prima cosa che si fa quando si impagina un libro è importare i testi dai file di word che ti passa l’autore o il redattore e gli si dà “lo stile”, ovvero si assegna la font corretta a ogni parte scritta. I titoli, il testo, le operative, le didascalie, ognuno con la propria font, il corpo e il colore come da progetto grafico. Ecco, mettere gli stili è la parte più noiosa dell’impaginare.

Io lo trovai fantastico

Poi, mi fecero impaginare un libro di matematica. Non so come funzioni ora, ma nel 1997 i programmi per impaginare la matematica erano appannaggio di pochi grafici che spesso erano meri “compositori”. Quindi si impaginava su carta. Il che significava che si fotocopiavano pagine praticamente bianche con segnata solo la griglia della pagina, si prendevano i fogli su cui il compositore aveva appunto “composto” tutto il testo di seguito, in gergo “una strisciata”, si ritagliavano tutti i pezzetti di testo e le figure e si riattaccavano sul foglio della griglia con lo scotch in modo che tutto risultasse armonico e “impaginato”. Poi si rimandava al compositore che eseguiva esattamente il risultato del tuo collage. Insomma, un lavoro certosino, ma che stranamente mi piacque tantissimo.

Il passo successivo fu fare una ricerca iconografica, ovvero cercare le immagini da inserire nei testi. All’epoca gli archivi fotografici on line erano fantascienza, per cui si cercavano le immagini su libri e riviste e poi si mandavano a scansionare da un fotolitista. Sfogliavo libri tutto il giorno alla ricerca di foto impossibili da trovare, combattendo con la costante tentazione di fermarmi a leggere ‘sti benedetti libri.

Infine mi fu concesso di impaginare alcune parti di alcuni testi in Xpress e contemporaneamente redazionarli. Ecco, quello fu proprio esaltante. Imparai che un bravo redattore non si sostituisce all’autore, che ne deve avere rispetto. Che un redattore è a servizio dell’autore e della casa editrice, ponendosi spesso come ponte e mediatore tra le richieste dell’uno e dell’altro. Che deve essere preciso nei riscontri e nella ricerca dei refusi e che è proprio questa, per me, la parte più difficile del lavoro. Imparai che non tutti gli autori hanno rispetto dei redattori, che molti autori non sanno proprio scrivere, ma che sono geniali e hanno belle idee e che questo basta perché siano autori a tutti gli effetti. Imparai a pormi delle domande, a verificare tutto quello che viene scritto, o almeno a provarci. Ho allenato il mio gusto estetico, ho imparato qualche trucchetto, e, soprattutto grazie ai miei innumerevoli errori, ho imparato quello che non va fatto. Ho imparato che un refuso brutto in prima stampa scappa sempre, che dopo 5 giri di bozze potrebbe esserci anche scritto “culo” e tu non lo vedi più. Che un bravo correttore di bozze è preziosissimo.

Dopo tre anni di tutto questo, dopo l’assunzione in una casa editrice, smisi di impaginare, continuai a redazionare, ma il mio lavoro diventò soprattutto quello di “coordinare”, cioè far in modo che autori, grafici, redattori, illustratori lavorassero insieme rispettando dei tempi, seguendo un progetto, rientrando nei costi e verificando che tutto fosse corretto. Un lavoro di mediazione, dove devi conciliare idee e opinioni diverse, dove devi rispondere sì o no a domande che riguardano cose che spesso non sono oggettivamente giuste o sbagliate, per cui ti devi prendere la responsabilità di un filetto rosso, una frase un po’ azzardata, un disegno non proprio corretto ma “non c’è più tempo per correggerlo”. Un lavoro dove ti stressano affinché tu poi a tua volta possa stressare altre persone. Ma scoprii anche che rivedere il lavoro degli altri è molto più facile che farlo, che sembrare “bravi” facendo le pulci alla redazione di altri, ti da una falsa immagine di stessa, ti fa credere di essere “bravissima”. Dopo sei anni così, mi dovetti rassegnare e riconoscere che, benché quel tipo di lavoro mi riuscisse forse anche abbastanza bene, semplicemente non faceva per me. Ero diventata una persona cattiva, frustrata, perennemente incazzata e dalla costante lamentela. Per me erano tutti degli incapaci, io ero vittima di ingiustizie e avevo la sensazione che le mie giornate fossero scandite solo dall’ora della mensa. Quindi, via, dimissioni, partita iva e ritorno alla libertà. Nel frattempo però l’avvento di Indesign e quindi di libri sempre più sofisticati, mi aveva fatto perdere il treno dell’impaginazione, ormai riservata, giustamente, a grafici che avevano studiato per esserlo. E così mi dedicai alla pura redazione e alla ricerca iconografica, con alcune parentesi di coordinamento e una breve fuga delirante nel mondo del digitale.

Poi, esattamente un anno fa, davanti a una macchinetta del caffè, in quel raro momento di pace e serenità che segue per qualche giorno la chiusura dei libri, mentre sondo se c’è lavoro per me per il prossimo anno, alla notizia che un corso non aveva ancora tutti gli autori definiti e un paio di volumi ancora da assegnare, me ne esco con una battuta di quelle che spesso i redattori fanno: “ma te li scrivo io!”. Solo che questa volta il pazzo con cui stavo bevendo il caffè mi ha detto, “ok, fallo”.

Ho passato quattro mesi in biblioteca, ho saccheggiato la fiera del libro per ragazzi di Bologna e le librerie di tutti gli amici con figli dai sette ai nove anni, ho ripreso quaderni dei miei figli, navigato nei siti Internet di maestre di tutta Italia, ho osservato i bambini della scuola dei miei figli e ho fatto domande un po’ a chiunque. Poi mi sono messa al computer e ci ho messo dentro tutto quello che ho imparato in vent’anni di libri, più quello che avevo imparato facendo la supplente, fino a quello che ho studiato all’università e prima ancora alle magistrali. È stato bellissimo. Poi ho dato tutto in pasto alla casa editrice, a un redattore che non ero io e la cosa mi ha dato una strana sensazione. Loro lo hanno lavorato, corretto, impaginato, disegnato. Qualche giorno fa mi hanno fatto vedere la copertina: il mio nome solo soletto, là in alto, sembrava uno pseudonimo, un nome finto di quelli che usano i grafici per fare le prove delle copertine. Corto, banale e poco incisivo. Ci vorranno ancora alcune settimane perché questi due volumi, insieme agli altri del corso scritti da altre persone, potranno prendere il largo ed essere sottoposti al severo giudizio delle insegnanti. Ma quel nome corto e banale su quella bozza di copertina è il mio, e vederlo lì mi ha fatto tenerezza.

Lavaggio strade

La via in cui abito è una delle poche rimaste a Milano con il lavaggio stradale settimanale. Questo significa che spesso il giovedì, quando ormai hai lavato i denti e stai già per buttarti nel letto, ti ricordi che bisogna spostare la macchina. Confesso che la stragrande maggioranza delle volte a scendere è il consorte, ma qualche volta ci vado io, anche perché la macchina da spostare è la mia. E così stasera, dopo aver urlato “quando torno vi voglio trovare tutti a letto”, ho messo le scarpe e con uno sforzo sovraumano, ho chiamato l’ascensore e sono scesa. Mentre scendevo ringraziavo il cielo di non avere un cane, così da avere questo supplizio solo una volta alla settimana e non tutte le sante sere.

Poi però, una volta uscita, mi ha accolto una serata che profumava di luna. Sono salita in macchina con il fare da gran donna vissuta, ho ingranato la marcia con la sicurezza di chi basta a se stesso e ho cominciato a girovagare alla ricerca di parcheggio come se guidare fosse la cosa che mi piace di più al mondo. Avrei potuto guidare per ore. Alla fine ho desistito e ho messo la macchina nel posto della disperazione, quello cioè dove la parcheggio quando proprio non so dove ficcarla. È una vietta tranquilla, poco frequentata. Da qualche tempo ci hanno messo delle panchine e stasera c’era un gruppo di persone che chiacchierava.

Ah… non so cosa avrei dato per aver qualcuno anche io con cui chiacchierare: una bottiglia di birra e una panchina su cui sedermi scomposta a ragionare sul senso della vita, a spettegolare, a ridere di scemate nel buio ovattato della notte. Come quando a vent’anni, nell’era pre-cellulare, capitava che dopo cena citofonasse qualche amica che diceva semplicemente “scendi un po’?”

Invece ho chiuso la macchina e con passo stanco sono tornata a casa, ho caricato la lavastoviglie, ho tirato giù le tapparelle, ho urlato “spegnete la luce che è tardi”, ho spento il computer cercando di memorizzare tutto quello che devo fare domani e mi sono infilata nel letto con il cellulare in mano.

Tra le cose da fare domani però ci metto “comprare della birra”. Se dovesse ripresentarsi una serata che profuma di luna, e dovesse citofonare qualcuno che ha voglia di chiacchierare, voglio essere preparata.

Ormoni

Se non mi fossi sposata e se non avessi avuto figli adesso potrei essere due cose: o una stakanovista del lavoro, un po’ stronza e arrivista, oppure una donna sciatta, deformata da cibo spazzatura e ore davanti alla tv.

Non credo che avrei potuto essere una via di mezzo. Sicuramente non una single amante dello sport, della dieta sana, dei locali e di tinder con tanti amici e mille interessi.

O forse sì… mah… chi può dirlo…

Di certo avrei dovuto trovare in me la forza necessaria per alzarmi la mattina, farmi da mangiare, lavarmi, vestirmi… e l’unica cosa che credo avrebbe potuto darmela temo sarebbe stato il senso del dovere, il lavoro, la necessità di uno stipendio.

Invece, mi sono capitati un marito e tre figli, insomma, una famiglia. Che sì, è una figata sotto molto aspetti, e per questo mi sento molto fortunata e privilegiata.

Ma le “me” che avrei potuto essere mi fanno molta tenerezza, perché ci sono e vengono fuori in fasi alterne della mia vita, nei momenti più inaspettati. Ci sono periodi che sono tutta efficientismo, disponibilità e iniziativa e altri che vorrei essere solo un cuscino del divano. Forse dipende da quante bustine di magnesio mi faccio, quanto cioccolato mangio, quanto sole c’è fuori, chi lo sa… Ma questa sensazione, ovvero che sto vivendo solo una delle possibili vite che avrei potuto vivere, certe volte mi destabilizza. Il ché non significa che non mi piaccia la mia vita, è solo la vertigine di comprendere che sei quello che hai voluto o potuto essere ogni volta che la vita ti ha proposto dei bivi, regalato botte di culo o enormi sfighe, fatto fare incontri, posto degli ostacoli o innalzato muri.

E mentre faccio queste riflessioni mi ricordo che devo andare alla asl a registrare l’esenzione per gli esami alla tiroide… perché uno pensa di fare chissà quali grandi riflessioni sul senso della vita, ma poi alla fine è sempre e solo una questioni di ormoni…

Ogni tanto succede

Sto invecchiando. Non è una brutta cosa di per sé, è solo faticoso e doloroso, qualche volta.

Ho capito che niente è per sempre. Ma anche che tutto rimane. Ci entra nelle ossa, diventa parte di noi.

C’è stato un periodo della mia vita durante il quale immaginavo il paradiso come un enorme archivio dove fosse possibile trovare tutte le risposte, dai grandi misteri della storia ai pensieri più profondi delle persone che ci hanno accompagnato in vita, un’enorme possibilità di capire le nostre vite e quelle degli altri, un luogo dove solo la verità avesse spazio.

Poi, pian piano, ho cominciato a pensare che non volevo che il mio archivio fosse scoperto solo dopo l’arrivo delle persone in paradiso.

E così ho imparato a dire quello che penso. Ho provato il sollievo di dare voce ai miei pensieri e mi è piaciuto. Quest’estate mi è stato fatto notare che forse lo faccio anche troppo. Forse è vero. Ma vorrei chiarire che non lo faccio con tutti, lo faccio solo con chi mi interessa veramente, con chi credo valga la pena farlo, perché so che non fraintenderà, che capirà.

Ho cominciato a dire quello che mi passa per il cervello, quello che mi fa soffrire e quello che mi fa stare bene, a chiedere scusa e a dire quando mi sento offesa. Ho cominciato a dire alle persone a cui tengo che gli voglio bene. A stimare profondamente le persone che lo dicono con disinvoltura, perché ho capito quale gioia possa regalare il sentirsi dire che qualcuno ti vuole bene. Non mi riferisco alle persone della propria famiglia, con cui certe cose sono sempre scontate o complicate. Mi riferisco ad amici, o anche solo conoscenti, che però per qualche motivo ti sono state o ti sono vicine. Sono quelle persone che ti toccano il cuore, anche solo per un attimo, perché in quel momento capisci che hanno bisogno del tuo affetto o sono loro che capiscono che tu hai bisogno solo di un gesto di gentilezza.

Vorrei essere capace di vedere sempre le persone accanto a me, vederle veramente per capire quando hanno bisogno di me e quando invece vogliono essere lasciate in pace.

E ogni tanto vorrei che qualcuno vedesse me.

Ogni tanto succede.

Detox

Ce ne andremo da qui un giorno. Lasceremo tutto e ci metteremo in viaggio. E saremo sereni, sollevati, leggeri. Non più preoccupazioni, non più invidie, non più rancori. Il mondo sarà un posto bellissimo, pieno di gente che balla, che ride. Conosceremo lingue nuove, nuove usanze. Non ci sarà nemico, non ci sarà prepotente, non ci sarà cinico, non ci sarà cattivo. Ci stringeremo un po’ e ci staremo tutti. Tutti avranno il loro grande amore, tutti saranno baciati da chi vorranno essere baciati. Ci sarà il sole. Un giorno ci stuferemo di essere arrabbiati, pavidi ed egoisti. Ci sdraieremo su un prato, perdoneremo tutto e saremo perdonati. Ritroveremo amici persi, ci riscopriremo più simpatici. I bambini saranno solo bambini, i ragazzi si godranno la loro vita, e noi ci goderemo la nostra maturità, felici di essere consapevoli che maturi non lo saremo mai. Riscopriremo la gentilezza e sarà un sollievo. Saremo felici di quello che abbiamo ma non avremo l’ansia di perderlo.

Tutto questo avverrà, ne sono sicura. Nel frattempo…

boh…

Forse smettere di leggere i commenti sui social mi potrebbe essere d’aiuto…

Esco a farmi un giro

Ci sono giorni che chissà perché tutto svolta.

Ti alzi una mattina e boom! decidi che nei abbastanza. Che è giunto il momento di “mollare le menate” anche senza aver bisogno necessariamente di “metterti a lottare”.

Guardi fuori dalla finestra e nonostante stia piovendo vedi che le nuvole stanno andando via. Ti rendi conto che molte cose non dipendono da te, che non puoi farci niente e quindi tanto vale prendere quello che viene e tenersi solo il bello.

Sono i giorni in cui uscire dal pantano in cui ti eri infilata diventa una cosa possibile.

Ti metti una camicetta a fiori non stirata e stai bene lo stesso. Profuma di pulito e ti basta.

I gerani sul balcone ti sembrano bellissimi, la casa, illuminata dall’unico raggio di sole che riesce a entrare, si illumina e ti dà un senso di allegria immotivata.

Le cose non vanno come pensavi? Va bene lo stesso, forse andranno in modo diverso ma non è detto che sarà il peggiore. E anche se lo sarà, si vede che doveva andare così.

Hai la sensazione che le persone tramino alle tue spalle? Forse non è vero, forse non sei così importante come credi. E se anche fosse vero, pazienza, non puoi farci nulla, prima o poi scoprirai cosa ci sta dietro e quando sarà, sarai già alla giusta distanza per non farti travolgere. E questo pensiero ti dà sollievo. Tra dieci anni ci riderai su, quando sarai vecchio ripenserai a questi giorni con affetto.

Ci sono giorni in cui tutto riacquista il giusto peso, le cose importanti riprendono il loro posto e quelle che ti avvelano la vita si dissolvono nell’aria.

Ci saranno ostacoli, ma un modo per scavalcarli si troverà. E se non sarà possibile, troverai un modo per arredarli, dipingerli, colorarli fino a renderli quasi belli da vedere e da tenersi accanto.

Ci sono giorni in cui ti sembra che potrai reggere a qualsiasi urto, ma non perché ti senta forte, ma solo più “morbida”. Un po’ come la carta di imballaggio fatta di tante bolle d’aria: qualcuna nell’urto scoppierà, la carta si sgualcirà, ma tutto rimarrà integro.

Ho messo via il ferro da stiro ed esco a farmi un giro.